Facciamo il gioco del «senno del poi»; quello in cui nessuno vince, ma qualcuno perde. Prendiamo un periodo del nostro recente passato, uno a caso: ottobre-novembre 2011. Il governo Berlusconi subiva l'ultimo micidiale attacco che lo avrebbe portato a capitolare davanti all'aggressione finanziaria internazionale, all'accerchiamento in Europa e al massacro mediatico costruito in Italia ed esportato a regola d'arte. Apriamo i giornali di allora, quelli importanti, quelli dei poteri che contano. Rileggiamoli: erano un profluvio di previsioni apocalittiche sulla fine del nostro Paese, sul default dell'Italia che avrebbe trascinato nel baratro l'Europa, il mondo e forse l'intero sistema solare. Un bollettino di guerra riportava ogni giorno il numero dei bombardamenti a tappeto che avrebbero ridotto in rovine fumanti la nostra economia (dai rendimenti dei Btp che superavano la soglia del 6,30% dopo la vendita in blocco dei nostri titoli fatta dalle banche tedesche, allo spread che volava sopra i 500 punti base, alle agenzie di rating che declassavano l'Italia santificando uno dei più grandi imbrogli della storia).
L'Italia era paragonata al Titanic che stava affondando. Su Repubblica , Berlusconi diventava «Nerone che suona la lira mentre Roma brucia». Ezio Mauro ci diceva che era «in gioco la salvezza del Paese e nient'altro». E in quel «nient'altro» buttato lì, capivi che in gioco c'era proprio altro.
Sul Corriere della Sera , Mario Monti paventava il rischio che, per colpa del Cavaliere, l'Italia si sarebbe trasformata «da Stato fondatore a Stato affondatore dell'Unione europea». L'uomo in loden vestiva i panni del tecnico super partes nascondendo ipocritamente che da mesi stava saltando tra gli chalet svizzeri di De Benedetti e le scuderie del Quirinale per scalzare Berlusconi e prendere il suo posto.
Montezemolo e i suoi amici di Confindustria intimavano all'allora premier di farsi da parte prima che l'Italia finisse «nel baratro». I signori delle banche raccolti nell'Abi e presieduti da tal Mussari (quello di Mps e Antonveneta, per intenderci) spiegavano che la speculazione finanziaria non esiste, che «questo è il mercato, baby», quindi «mollateci la cima che ci pensiamo noi, padroni del denaro, a comandare la nave». Nel gioco del «senno del poi», dove nessuno vince e qualcuno perde, noi prendiamo i dati macroeconomici di allora e li confrontiamo con quelli di oggi, risultati di tre governi (Monti, Letta, Renzi) non eletti dai cittadini e benedetti da quegli stessi poteri che ieri ci terrorizzavano con il rischio default .
Il debito pubblico è passato da 1.900 miliardi del 2011 agli oltre 2.100 del primo trimestre del 2014 (dati Banca d'Italia). Il Pil è sceso dal +0,4 del governo Berlusconi al -1,8 del 2013 (e le previsioni del 2014 non fanno immaginare particolari miglioramenti).
Il rapporto debito/Pil, su cui i tecnocrati europei inchiodano popoli e nazioni, è passato dal 120% del 2011, al 135,6% del primo trimestre 2014 (dati Eurostat). La disoccupazione è aumentata dall'8,9% del 2011 al 12,6% di maggio 2014, quella giovanile dal 31% al 43,3% (dati Istat).
La pressione fiscale era al 42,6% con il governo Berlusconi ed è arrivata al 44,1% con i governi Monti e Letta (aspettiamo i dati Istat sull'aumento del governo Renzi). La produzione industriale, tra il 2011 e il 2013, è calata del 10,9%, più che nel resto d'Europa.
Insomma, in tre anni tutti i nostri fondamentali economici sono peggiorati. La domanda sorge spontanea: perché, se l'Italia rischiava il default allora, non lo rischia ancor di più oggi? Semplice: perché non lo rischiava neppure allora.
La verità è che ci hanno mentito;
spudoratamente. Perché l'obiettivo non era «salvare il Paese» ma abbattere chi lo governava, con tutti i mezzi possibili. E così, nel gioco del «senno del poi» dove nessuno vince, ha perso l'Italia.Twitter: @GiampaoloRossi
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