Sono passati nove giorni dalle esultanze sguaiate al Luzhniki Stadium, dagli abbracci con la bella presidentessa croata Kolinda Grabar-Kitarovic e dalla «dab dance» con Pogba negli spogliatoi. Il trionfo di Emmanuel Macron è senza onda lunga, perché ormai il mondo gira troppo veloce e brucia tutto in un amen. Quindi è bastato il primo scandalo per mettere in ombra una coppa del Mondo che la Francia aspettava da vent'anni.
Sono lontani i tempi delle vittorie di regime (l'Italia di Mussolini nel 1934 o l'Argentina dei colonnelli nel 1978), ma pure quelli, più recenti, in cui nell'apoteosi sportiva il popolo si identificava non solo col centravanti o con l'allenatore ma pure con i leader che quei successi avevano avuto la fortuna di incrociare nella loro parabola politica. Colpa della politica e della sua crisi globale. Da qualche lustro il politico non unisce, divide: se Pertini fosse stato a Berlino nel 2006 metà del Paese gli avrebbe rinfacciato il volo di stato, altro che nonno degli italiani. E così, se ancora nel 1998 Jacques Chirac riuscì a monetizzare in termini di popolarità l'affermazione della prima Francia multietnica migliorando il suo gradimento personale di 18 punti nei successivi tre mesi, stavolta Macron deve addirittura fare i conti con un «effetto boomerang».
I francesi sono allegri, per carità. Quelli ottimisti sulle sorti del Paese sono passati dal 41% di sei mesi fa al 62% attuale e l'indice di fiducia economica ha avuto un'impennata del 9%, ma secondo un sondaggio dell'istituto Odoxa il 61% continua a ritenere che lui non sia un buon presidente. Di più: dal 26 giugno a oggi ha pure perso un paio di punti.
C'entra sicuramente l'affaire Benalla ma come detto c'entra pure il modo diverso in cui, almeno in Occidente, le masse distribuiscono il consenso. Per cui oggi il leader più amato non è tanto quello che incarna le fortune dello stato, fossero pure pallonare, ma quello che riesce a catalizzare il malcontento. Che è un'operazione abbastanza semplice finché sei all'opposizione ma molto più ardua quando sei costretto a caricarti sulle spalle le aspettative degli elettori.
Allargando la panoramica politico-calcistica agli ultimi 16 anni, e quindi alle tre precedenti edizioni di quella pacifica guerra mondiale che è il campionato per nazioni sul rettangolo verde, scopriamo che solo Angela Merkel ha saputo resistere alla «maledizione della coppa». Se la cancelliera, in carica ininterrottamente dal 2005, sembra impermeabile agli alti e bassi dell'umore popolare, altrettanto non si può dire dei suoi colleghi involontariamente finiti sull'albo d'oro. Nel 2002 il brasiliano Fernando Henrique Cardoso durò appena sei mesi da quando Ronaldo e compagni si laurearono pentacampioni in Giappone. Nel 2006 Romano Prodi era a Palazzo Chigi da meno di due mesi quando l'Italia di Lippi seppe trasformare lo scandalo di Calciopoli nell'ultimo trionfo azzurro, ma nemmeno quel «boost» di popolarità riuscì a fargli terminare la legislatura: più di Cannavaro poté Turigliatto. E nel 2010 il primo alloro per la Spagna fu anche il canto del cigno di José Luis Zapatero che circa un anno e mezzo dopo scelse di non ricandidarsi alla fine del mandato.
I
precedenti infausti non mancano, insomma, però Macron rischia di esagerare. Dall'altare della tribuna d'onore alla polvere di una crisi di governo il professorino francese sta correndo veloce come Mbappé lanciato in contropiede.
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