L’Italia, secondo i dati sciorinati dal governo Renzi starebbe uscendo da una crisi che in questi anni ha colpito tutti ad eccezione dei commercianti extracomunitari. Girando per le grandi città nasce spontanea una domanda: com’è possibile che i negozi di souvenir cinesi, sempre vuoti, non chiudano mai e i bengalesi e i nordafricani si siano imposto come leader nazionali nel settore dell’ortofrutta mentre gli italiani non fanno altro che chiudere?
Semplicemente perché gli extracomunitari da anni ricevono agevolazioni fiscali attraverso bandi dello Stato centrale o degli enti locali, magari per seguire qualche direttiva europea. L’ultimo bando, di 1 milione e 600mila euro è stato aperto bando aperto lo scorso 16 novembre dal ministero del Lavoro ed è destinato a un massimo di 160 extracomunitari tra i 18 e i 30 anni, residenti nel Lazio, in Campania o Sicilia che potranno aprire una loro attività grazie al contributo a fondo perduto di un massimo di 10mila euro a persona. È così che gli extracomunitari hanno superato, quasi indenni, la crisi. Lo dicono anche gli ultimi dati di Unioncamere/Infocamere secondo cui in questi ultimi anni di crisi economica le uniche imprese che hanno avuto una crescita sono proprie quelle guidate da lavoratori immigrati soprattutto nel settore del commercio, della ristorazione e della manifattura. L’aumento sfiora le 28.000 unità solo nel corso del 2014 (+5,6%) e le 71mila rispetto alla fine del 2011 (+15,6%), mentre le attività commerciali gestite da italiani sono diminuite rispettivamente dello 0,9% e del 2,5% (-140mila nel triennio). Sono più di mezzo milione le aziende gestite da lavoratori immigrati e ben il 12% di queste sono imprese individuali in mano ai marocchini (15,2%), cinesi e romeni (11,2% ciascuno), albanesi (7,3%) e bengalesi (6,2%). Secondo i dati forniti dalla Camera di Commercio di Milano, le imprese di gestite da extracomunitari nei settori cruciali (commercio, ristorazione e alloggi) sono: il 26,5% del totale a Milano, il 25% a Palermo, il 20% a Genova e a Bologna, il 19% a Cagliari e a Roma.
Proprio nella Capitale, il caso più emblematico è quello del centralissimo quartiere Esquilino, diventato negli anni della comunità cinese. Qui, infatti, di 1250 attività commerciali ben 700 circa sono in mano ai cinesi, 150/180 sono in mano ai bengalesi e una trentina sono gestite dagli egiziani e perciò le attività commerciali italiane sono circa 300. “Negli ultimi anni abbiamo avuto – spiega Augusto Caratelli, presidente del Comitato di residenti Roma Caput Mundi Esquilino - una desertificazione commerciale galoppante. Su questo abbiamo avuto durissimi confronti con le giunte Veltroni, meno con Alemanno perché ci ascoltava mentre con Marino c’è stata chiusura totale e ciò ha comportato un tracollo della vivibilità all’Esquilino a causa del proliferare di queste attività illecite”. Contro i negozietti di ortofrutta gestiti prevalentemente da egiziani e bengalesi si è, invece, schierato il consigliere regionale del Lazio Fabrizio Santori che ha annunciato la presentazione di un esposto alla guardia di finanza con “l’obiettivo di rendere doverosamente conto alla cittadinanza sugli interrogativi che emergono guardando a queste realtà: repentini cambi di Iva e di intestatari delle attività, mancati controlli del fisco, rischio di flussi di altro personale straniero fittiziamente assunto, maggiore trasparenza su esercenti che restano aperti tutta la notte senza alcun riscontro in termini di convenienza magari compiendo nel buio anche attività illecite”.
Ma come riescono a farla franca dinanzi ai controlli della guardia di finanza e dei Nas? “Basta far fallire fittiziamente la propria attività dopo la seconda ispezione. L’escamotage – spiega un commerciante italiano che vuole restare anonimo e che è prossimo alla chiusura del suo negozio - sta nel non avere nulla di intestato, di essere un fantasma senza domicilio fiscale e beni “materiali” attaccabili dallo Stato (quindi da Equitalia) e in caso di sanzioni non pagate non si incappa in fermi amministrativi o altre multe che noi italiani dobbiamo pagare inevitabilmente”. Senza questo stratagemma sarebbe difficile aprire, e soprattutto tenere in vita, un’attività semplice come quella del minimarket. Se, infatti, l’apertura della partita Iva in sé non ha costi particolari e, l’acquisto dei libri contabili e del registratore di cassa ammonta intorno ai mille euro, a pesare sono l’eventuale acquisto della licenza di somministrazione (che varia da 100mila a 1 milione di euro), l’iscrizione all’Inail e soprattutto all’Inps, la cui spesa minima si aggira intorno a 2800 euro. Un commerciante che rientra nell’aliquota Irpef più bassa, a fine anno, pagherà più di 6mila euro di tasse senza considerare affitto, bollette e acquisto merci. “Ma si ha una ditta con due dipendenti – spiega il commercialista Dario Caprioglio - i costi variano a seconda che si usufruisca degli sgravi fiscali del jobs act oppure no. In questo secondo caso l’aliquota da versare all’Inps è pari al 38% e ciò significa che una busta paga netta di 1100 euro al titolare costa 1600 euro per un totale di 18/19mila euro annui a dipendente. Alla fine, perciò un commerciante con un utile netto di 10mila euro e 2 dipendenti alle spalle spende annualmente 28/30 mila euro di tasse, escluso affitto, bollette e acquisto della merce”.
Alla luce di questi numeri pare difficile credere che i commercianti italiano possano competere con certe attività commerciali gestite da extracomunitari che hanno 4 o 5 dipendenti in busta paga e che restano aperte anche 12 ore al giorno. Sorge il dubbio di essere di fronte all’ennesimo caso di razzismo all’incontrario in cui a essere discriminati sono gli italiani onesti.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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