Così il Pd svende gli italiani nell'Alto Adige germanizzato

In cambio dell'appoggio al governo la sinistra cede agli autonomisti. E i non tedeschi finiscono discriminati

Così il Pd svende gli italiani nell'Alto Adige germanizzato

Può un busto di Mussolini finire sulle prime pagine di tutti i giornali e far parlare una città intera? Nel resto d'Italia sembra difficile, a Bolzano è successo nei giorni scorsi, quando Eva Klotz, «pasionaria» del revanscismo tirolese, ha cercato di consegnare al sindaco della città Renzo Caramaschi (centrosinistra) una statuetta del Duce. Motivo: la decisione, definita «fascista», di restaurare la Lupa e il Leone di San Marco che, in pessime condizioni, stavano su un ponte cittadino. In molti hanno apprezzato la reazione del sindaco, che con un sonoro «Vergogna, pagliacci», ha buttato il calco in terra riducendolo in mille pezzi. Più o meno in contemporanea i giornali locali hanno dedicato articoli e commenti al compleanno di Andrea Bonazza, consigliere comunale di Casa Pound sempre a Bolzano. Bonazza, noto per le sfilate in camicia nera nel centro città e per le felpe dedicate alla Divisione delle SS Charlemagne, ha pensato bene di farsi festeggiare da una trentina di attivisti con saluto romano ed «Eia eia alalà» di ordinanza. Il filmato della cerimonia è stato poi postato su Facebook. Una benedizione insperata per la stessa Klotz e tutta l'ultradestra di lingua tedesca, che non perde occasione per perpetuare l'identificazione tra italiani ed estremismo nostalgico.

DOPOGUERRA ETERNO

Scene di vita quotidiana in Alto-Adige, dove il dopo-guerra sembra non finire mai, e dove le ferite del passato fanno una fatica maledetta a rimarginarsi. A scaldare il clima, come se ce ne fosse bisogno, è tornata all'ordine del giorno la questione della toponomastica: i nomi di paesi, sentieri e montagne della zona, su cui tedeschi e italiani litigano all'incirca da 100 anni, senza che una pace sembri in vista. La Svp ha deciso di stringere i tempi per cancellare le meno usate tra le denominazioni italiane, ma il tentativo di sbloccare la situazione ha provocato un pandemonio. La telenovela affonda le sue radici in anni lontani, addirittura nel periodo precedente la Prima guerra mondiale, quando il senatore Ettore Tolomei, irredentista sfegatato, inizia a riscrivere e tradurre in italiano tutti i toponimi che il trattato di pace assegnerà poi al Regno d'Italia. Il primo governo Mussolini, con un Regio Decreto del 1923, trasforma in legge l'elenco dei toponimi rivisti da Tolomei e l'uso dei corrispondenti termini germanici viene vietato. Sugli altoatesini di lingua tedesca il trauma pesa ancora come un macigno, e più passa il tempo più la situazione si complica. Decennio dopo decennio una serie di nomi italiani finiscono per entrare nell'uso comune. Ritornare indietro non è possibile, ma la Südtiroler Volkspartei non si rassegna allo status quo. Una prima norma del 2012, che avvia la demolizione dei toponimi italiani, incaricando delle ridenominazioni i comprensori locali, viene approvata dal Consiglio provinciale nel 2012. Il governo però l'impugna di fronte alla Corte Costituzionale. E per la Svp la sentenza diventa un problema. «I vertici del partito lo dicono esplicitamente: la decisione della Consulta non potrà che inchiodarci al bilinguismo», spiega Alessandro Urzì, consigliere provinciale di Alto Adige nel cuore (centrodestra). «La via d'uscita scelta per evitare la pronuncia della Corte è stata quella di cercare di approvare una norma di attuazione dello Statuto, che per sua natura ha rango costituzionale e libera il campo da ricorsi e sentenze».

GIOCHI POLITICI

Per il partito tedesco di maggioranza relativa il momento è favorevole: sul piano locale governa col Pd e a Roma a fare da regista è il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianclaudio Bressa, bellunese di origine ma eletto a Bolzano, artefice dell'accordo elettorale tra Svp e Pd, e che perfino nel Partito democratico altoatesino qualcuno si spinge a definire ormai come una sorta di «esponente ombra» della Südtiroler. Il momento è opportuno anche perché l'autunno del 2018, con le prossime elezioni provinciali, si avvicina. La Svp sente il fiato sul collo dei movimenti più oltranzisti: oggi il partito che fu di Silvius Magnago ha 17 consiglieri, i partiti tedeschi alla sua destra 10. Non pochi. Una battaglia dal sapore fortemente identitario come quella sui nomi non può che aiutarla.

A fine febbraio tutto sembra pronto per l'approvazione della norma da parte della Commissione dei Sei, che per legge deve dare il via libera. Poi le cose si complicano. Un centinaio di studiosi di linguistica, della Penisola ma anche tedeschi, svizzeri e americani, firmano un appello dell'Accademia della Crusca contro il provvedimento. Cento senatori li seguono a ruota. Roberto Bizzo, presidente Pd del Consiglio provinciale e componente della Commissione dei Sei, annuncia che non voterà la bozza. Non decidere all'unanimità sarebbe imbarazzante e tutto si blocca. Nel documento sul tappeto il criterio di base per decidere se mantenere o no un nome italiano è «l'uso diffuso». Ma chi stabilisce che cosa si intende per uso diffuso? «Le nuove norme affidano la decisione a una commissione paritetica di studiosi italiani e tedeschi», spiega Bizzo. «Ma l'esame deve avvenire con delle procedure che diano delle garanzie a ciascuno dei due gruppi. E nelle norme queste garanzie io non le ho viste».

PRIMA IL TEDESCO

Ad aumentare lo scetticismo tra gli osservatori di lingua italiana è anche il concetto tutto particolare di pariteticità in vigore dalle parti di Bolzano. Un esempio è proprio la già citata Commissione dei Sei, in cui tre esponenti sono scelti su base locale e tre da Roma. I criteri usati però dall'esecutivo Renzi per le nomine di sua competenza (in quel periodo Bressa era sottosegretario alle autonomie locali) sembrano assai curiosi. Per rappresentare il governo nazionale vengono nominati Francesco Palermo, costituzionalista, eletto in Parlamento da un lista unica Pd-Svp, e Daniel Alfreider, deputato nazionale, nonchè vicepresidente, della stessa Südtiroler Volkspartei. Palermo e Alfreider si aggiungono a due esponenti di vertice della Svp nominati dalla provincia, Dieter Steger e Karl Zeller. E dunque un unico partito, la Svp, viene a controllare, direttamente o indirettamente, quattro esponenti di una commissione di sei persone presuntivamente paritetica e decisiva per le sorti dell'autonomia.

DISAGIO ITALIANO

Sullo sfondo, a spiegare il quadro complessivo, c'è la situazione di fragilità ormai conclamata della comunità italiana dell'Alto-Adige. Perfino uno studioso come Thomas Benedikter, figlio di Alfons, esponente dell'ala dura della Svp dei tempi di Magnago, ha cercato di analizzare in un libro recente quello che in tedesco viene pudicamente definito come Unbehagen («disagio») degli italofoni appena a sud del Brennero. Più del 70% degli italiani ritiene per esempio che la cosiddetta «ethnische Proporz», il rigido sistema di distribuzione degli incarichi pubblici a seconda del peso delle due comunità, vada a tutto vantaggio dei tedeschi. E la frase che si sente pronunciare più spesso è un sconsolato «qui noi non contiamo niente», mentre altri dichiarano esplicitamente di aver accettato una sorta di patto faustiano: «Siamo cittadini di serie B, in compenso però qui si vive bene, anche grazie alla Svp». La debolezza è particolarmente evidentemente sul piano politico: mentre il Pd è impegnato in acrobatici giochetti di potere con la Südtiroler Volkspartei, il centro-destra è imploso in un'orgia di scelte miopi e dissidi personali. Il risultato, impietoso, è nei numeri: oggi, per la ridotta partecipazione al voto della comunità e per la frammentazione dei partiti italofoni, in Consiglio provinciale gli esponenti di lingua italiana sono rimasti in 5 su 35. Nel 1973 erano più del doppio, 11.

Quanto al problema dei nomi, la partita, per la Svp, è tutt'altro che conclusa. «Una soluzione è necessaria: il fatto è che per legge esistono solo i toponimi italiani, mentre quelli tedeschi non sono mai stati ufficializzati». spiega Philipp Achammer, Obmann (segretario) della Svp. «Abbiamo trattato a lungo e credevamo di aver trovato un compromesso equilibrato. Il Pd si era dichiarato d'accordo e si era impegnato. Ora ci aspettiamo che mantenga i patti». Tutto dipenderà dunque dai rapporti di potere nel partito di Renzi. A livello locale la resa dei conti è fissata per il congresso provinciale di autunno.

A Roma a contare sarà il pugno di voti che la Svp può garantire al governo Gentiloni. Bressa ha già alzato la voce contro chi, tra i democratici, trascina i piedi, in prima fila il reprobo Bizzo: «Politicamente parlando bisognerebbe prenderli a sportellate».

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