Il cuore ferito di Israele: "Ma qui c'è voglia di futuro"

Il 7 ottobre, gli ostaggi in mano a Hamas, gli attacchi dall'Europa. Eppure il Paese non perde le speranze

Il cuore ferito di Israele: "Ma qui c'è voglia di futuro"
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nostro inviato a Tel Aviv

Sulle kippah in vendita nei banchi dello «shuk», a Gerusalemme, campeggiano il sorrisone di Donald Trump e la stella di David affiancata alla bandiera Usa. I dazi non hanno risparmiato lo Stato ebraico ma l'Europa sembra ancora più lontana, perduta. L'ambasciata a Londra accusa il sindaco Sadiq Khan di aver fatto ricorso alla «propaganda di Hamas». Il Pse chiede addirittura di sospendere l'accordo di associazione Ue-Israele, ma nella città vecchia è improbabile che qualcuno se ne preoccupi.

Lo Stato ebraico si è affidato all'amicizia col presidente americano che nel primo mandato ha concepito i Patti di Abramo, e nel secondo ha riproposto un sostegno totale a Bibi Netanyahu, intimando ad Hamas di consegnare tutti gli ostaggi «o sarà l'inferno». Per il partito del premier, il Likud, le prospettive della agognata stabilità in Medio oriente sono legate agli accordi commerciali con i Paesi islamici «moderati» (cioè quelli che non vogliono cancellare gli ebrei e il loro Paese).

Sono passati 544 giorni e la ferita del 7 ottobre sanguina ancora. Un'invasione scatenata per uccidere, sequestrare, stuprare, terrorizzare. Israele oggi non è un Paese terrorizzato. Ma non smette di interrogarsi su quel trauma, sottoposto alla tortura psicologica degli islamisti che a Gaza tengono ancora 59 esseri umani (24 in vita, pare). Le famiglie degli ostaggi gridano sempre più forte: «La priorità è che tutti tornino a casa». A ogni costo. Per il caporale Gilad Shalit furono liberati 1.027 detenuti di Hamas. È un dilemma etico. «Chi salva una vita, salva il mondo intero» recita il Talmud. E dove non c'è più vita, va salvata la memoria. Come nel kibbutz «Nir Oz», il più vicino alla Striscia - un paio di chilometri - il più devastato, l'unico in cui nessuno è tornato davvero. Su 400 persone, 117 sono state uccise o rapite. Tutto è silenzio oggi. Ma la vita che c'era si sente. Ferma al 7 ottobre: il giardino dei cactus, le biciclettine, i peluche e gli altri giocattoli. Anche quelli dei Bibas. Kfir e Ariel sono tornati in una bara nera a febbraio, insieme a Oded Lifshitz, 85 anni, giornalista e pacifista. Lui e la moglie si adoperavano per far curare negli ospedali israeliani i palestinesi malati. «Ci piaceva bere birra a Nir Oz» dice Rita, che lo ricorda come «un maestro». E oggi idealmente versa un bicchiere con lui, suo suocero. «Credevamo nella pace. Abbiamo il cuore spezzato», dice. E canta come Joan Baez. Dove sono finiti tutti i fiori? Al Nova festival il numero dei morti ha raggiunto quota 364. Rafaela Treistman, brasiliana, ha visto uccidere il fidanzato, la sua mente ha rimosso la scena. Racconta però senza esitazioni le ore infinite sotto i cadaveri dei compagni, fra i liquidi corporei, in stato di semi-incoscienza. I luoghi di queste atrocità sono grandi «pietre d'inciampo» per la coscienza della comunità internazionale, che nella migliore delle ipotesi ha fatto finta di non vedere Gaza ridotta a piattaforma di lancio di missili e attacchi. E se c'è una richiesta unitaria, oggi in Israele, è lo stop al fiume di denaro che finisce per alimentare odio e terrore, per esempio in scuole in cui, a matematica, non si contano mele e pere ma i martiri e gli ebrei da uccidere. Israele è attaccato su 7 fronti, l'ottavo è mediatico: l'opinione pubblica globale che parla di «genocidio».

Ci si aspettava poco dalle organizzazioni internazionali qui: «Vuoi vedere che il responsabile di tutto è l'unico leader democratico dell'intera regione?» dicono al ministero degli Esteri, sbalorditi da università occidentali trasformate in trincee d'odio antisemita e piazze in cui riecheggia lo slogan mortifero di una Palestina «libera dal fiume al mare». Libera da ebrei, si intende. Israele lo vive come un tradimento. Ma riflette sui suoi errori in questo fallimento comunicativo. Eppure non sembra in procinto di diventare un'autocrazia, non pare sull'orlo di uno scontro civile o peggio del suicidio, come qualcuno prevede. Le divisioni le mostra senza remore. Su tutto si avverte il desiderio irriducibile di normalità e di tensione al futuro. Non solo nella brulicante Tel Aviv. Il 2024 ha registrato 134mila nascite: aumentano, per lo più nelle famiglie ebraiche. Segno di speranza.

«Questa è gente che pianta alberi perché crede nel domani» scriveva Indro Montanelli nel 1960. Lo avevano colpito gli occhi dei bambini. Israele 65 anni dopo continua a fare figli, come a piantare alberi. E si chiede ancora: c'è qualcuno con cui parlare dall'altra parte della terra di nessuno?

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