Una frase che rompe gli schemi: «L'Italia non può fare da sola». Papa Francesco, di ritorno dal Bahrein, pronuncia parole che mettono in crisi certe letture riduttive del suo pontificato, la sua presunta visione progressista che non contemplerebbe obiezioni alla politica delle porte sempre aperte. In realtà il discorso del Papa acquista ancora più forza perché pronunciato mentre è in corso uno scontro fra il nostro governo e le navi delle ong che chiedono di far sbarcare in Italia tutti i migranti.
C'è chi ipotizza allora uno slittamento di Francesco a destra, come se fosse possibile etichettare un pensiero come quello di Bergoglio che va oltre le categorie tradizionali del Palazzo. Francesco parla con realismo, perché è proprio la capacità di afferrare in profondità la complessità della realtà il tratto distintivo del fatto cristiano, non imprigionabile dentro la solita sarabanda delle interpretazioni.
I giornalisti che ascoltano Francesco ricevono messaggi accorati sul destino degli sventurati che attraversano il mare, quel Mar Mediterraneo divenuto per il Papa «il più grande cimitero del mondo». E contemporaneamente notano che Francesco chiama in causa l'Ue, finora la grande assente in questa tragedia interminabile. Bruxelles non può sfilarsi dalla gestione di questo disastro umanitario e Bergoglio suggerisce la strada.
Non ci sono visioni manichee, non ci sono presentabili e impresentabili, c'è semmai un richiamo alle responsabilità di molti Paesi che bacchettano il nostro esecutivo, ritenuto troppo conservatore ma nei fatti perseguono solo i loro interessi senza adottare una strategia minima di solidarietà.
Insomma, per una ragione o per l'altra, si registra una convergenza fra il Vaticano e il nuovo governo che era stato accolto nel segno dello scetticismo e del pregiudizio.
Naturalmente, come spiega al Giornale una fonte che ha un ruolo importante nei Sacri Palazzi, Bergoglio non si è spostato di un millimetro dai suoi convincimenti, ma c'è una vicinanza con il governo Meloni che si è scrollato di dosso certi estremismi legati all'origine dei suoi leader. Oggi Giorgia Meloni sembra aver stabilito una buona intesa con la Cei e i vescovi e a questo contribuisce la sua formazione cattolica e la sua difesa di alcuni valori tradizionali. Valori che in qualche modo riecheggiano - a sentire chi è dentro i Sacri Palazzi - le istanze del peronismo che Bergoglio conobbe in gioventù.
Nessun matrimonio o infatuazione, ci mancherebbe, ma grande attenzione al sociale coniugata con la difesa integrale della persona e dei suoi diritti. Un mix che spiazza chi credeva di aver già preso le misure con il pensiero del papa. Sorprendente anche quando dichiara, all'udienza della Fondazione Centesimus Annus: «La povertà non si combatte con l'assistenzialismo». Un giudizio che sembra prendere le distanze dalla logica di provvedimenti come il reddito di cittadinanza. Francesco si spende per i poveri, ma poi afferma: «Il lavoro è la porta della dignità».
Non ci sono e non ci possono essere ricette preconfezionate nel magistero papale, ma si trovano spunti per la riflessione e l'azione che su questo versante paiono in sintonia con il dinamismo antipauperista del governo Meloni e favoriscono il dialogo con segmenti conservatori del cattolicesimo che guardavano con nostalgia a Benedetto XVI.
I rapporti fra le due sponde del Tevere sono partiti con il piede giusto se è vero, come racconta
Dagospia, che per non compromettere i delicati equilibri con la Santa Sede Meloni ha rinunciato a nominare come ministro della cultura il «mangiapreti» Giordano Bruno Guerri, sostituito in corsa dal «pio» Gennaro Sangiuliano.
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