Tra le tante grane che attendono il prossimo ministro dell'Economia c'è quella del boom della spesa per interessi sul debito. Una situazione che non si verificava dall'inizio della scorsa legislatura, quando il tasso d'interesse medio dei titoli di Stato era dell'1,07%. Da allora il costo delle emissioni è sempre sceso, fino allo 0,1% del 2021. E comunque, prima del 2018, bisogna tornare indietro fino al 2015 per trovare il tasso di nuovo superiore all'1%. In altri termini, è dal governo Renzi che i tassi sono in costante calo, salvo la piccola impennata per le elezioni del 2018.
Effettuando un po' di calcoletti, come ha fatto anche il sito Huffington Post, e dando un occhio ai numeri del debito pubblico del Dipartimento del Tesoro del Mef, si può dire che la differenza tra i tassi sul debito a breve (i Bot) pagati fino al 2021 (negativi di circa 0,5%) e quelli che si intravvedono per il 2023 (circa 2,5%) fa 3%. Su un quantitativo di Bot da emettere l'anno prossimo, stima di 160 miliardi, significa 4,8 miliardi di spesa in più. Per quanto riguarda i titoli a più lunga scadenza (per lo più Btp, che pesano per il 70-75% del debito pubblico in circolazione), l'anno prossimo il mercato attende emissioni per almeno 315 miliardi. E il costo aumenterà dallo 0,8% del 2021 a circa il 4,7 (un calcolo fatto sulla base dei decennali, più o meno la mediana tra le varie scadenze). Quindi il 3,9% in più su 315 miliardi fa una spesa extra di 12,2 miliardi. Così il conto dei maggiori interessi arriva a 17 miliardi. Se a questo si aggiungono i costi degli interessi sul maggior debito contratto nel 2022 (circa 90 miliardi), pari ad altri 3 miliardi, si arriva a quota 20 miliardi: uno 0,7-0,8% del Pil 2023 che se ne va via in nuovi oneri finanziari. Per il futuro ministro Giancarlo Giorgetti, se sarà lui, un motivo in più per essere agitato.
Unica buona notizia: il lato buono dell'inflazione. Se l'aumento dei prezzi è la fonte del rialzo dei tassi d'interesse, dall'altra produce un effetto benefico sul debito: un tasso d'inflazione annuo del 9% significa una pari svalutazione dello stock del debito in circolazione.
Un beneficio il cui valore viene distribuito nel corso della durata media del debito (poco più di 7 anni), che per il debito italiano vale quasi 200 miliardi. Purtroppo, però, per il prossimo inquilino del Mef, sarà una magra consolazione.
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