"Dementi", "fascisti" e ministri "maiali". Il vizio della sinistra di insultare i nemici

Il complesso di superiorità legittima le offese più volgari. E il body shaming è sdoganato

"Dementi", "fascisti" e ministri "maiali".  Il vizio della sinistra di insultare i nemici

C'è una lunga e consolidata tradizione dietro la vignetta sulla sorella della Meloni. La base di partenza è l'inferiorità morale della destra, che autorizza espressioni altrimenti considerate insulti, intollerabili se fatte a parti inverse. Molto recente il «demente» affibbiato dall'ingegner De Benedetti alla premier, senza suscitare particolari reazioni. Da sinistra il disprezzo per l'avversario politico rasenta volentieri l'odio, legittimando attacchi violenti anche sul personale. Senza rievocare la stagione antiberlusconiana e lo sdoganamento delle ingiurie ai suoi ministri (vedi Brunetta, ferocemente sfottuto per la statura) e ministre (normalmente ritratte come sgualdrine), ci si può limitare a tempi più recenti. Il Fatto è una delle più affermate palestre per colpi bassi, con i suoi manganellatori per mezzo di matita Vauro, Natangelo, Mannelli e affini. Uno dei soggetti preferiti è Matteo Salvini, accostato di volta in volta a escrementi, parti del corpo poco nobili, animali tipo asini o maiali (vignetta di qualche tempo fa: si vede il leader della Lega con le sembianze del porco e la scritta «Peste suina focolaio a Roma»). In un'altra Salvini è una «metastasi». In un'altra ancora, di Vauro, è direttamente un «coglione», e via così. Vauro ha trovato ispirazione sempre dal gabinetto per commentare l'elezione del leghista Lorenzo Fontana a presidente della Camera lo scorso ottobre: un enorme escremento fumante da cui spunta la testa di Fontana, titolo: «Mancava la ciliegina sulla torta».

Le donne sono soggetti facili, vulnerabili sul piano sessuale. C'è stato un periodo in cui era in voga Maria Elena Boschi, che per quanto di sinistra, essendo renziana è considerata di destra, quindi trattabile con le stesse maniere. Sempre una vignetta sul Fatto, quand'era ministra, la ritrae con le gambe accavallate, il testo recita «Riforme: lo stato delle cos(c)e». Poi ovviamente la Meloni, rappresentata come una burina fascista, o anche peggio (in una vignetta del solito Natangelo sul tema «bonus facciata» lei si è rifatta il viso, a forma di sedere). Di mezzo ci è finita anche Elly Schlein, raffigurata come un mostro con il naso adunco, evidente riferimento alle origini ebraiche.

Frequente è anche l'appellativo «pescivendola» per la Meloni, metafora usata per esempio dal giornalista Alan Friedman in tv per commentare un discorso della leader Fdi («Urla come una pescivendola»), che poi per risposta fece un video con una cassetta di pesce per dire che non lo riteneva affatto un insulto, anche se l'intento era quello. Lo scrittore Roberto Saviano ha dato del «mediocre» e «servo» al ministro Gennaro Sangiuliano, giornalista di destra ed ex direttore del Tg1. Niente in confronto al «bastarda» dato alla Meloni (fatto per cui è stato querelato per diffamazione dalla premier). In difesa di Saviano è arrivata la scrittrice Michela Murgia, che ha paragonato la Meloni addirittura alla camorra, perché entrambe minacciano l'autore di Gomorra. Al programma «Otto e mezzo» la filosofa Rosi Braidotti ha parlato della «faccia rabbiosa e cattiva» della Meloni, mentre la conduttrice Lilli Gruber ha preso in giro Mario Giordano per la voce, imitandola su un palco, e dicendo di non sentirsi una sua collega. Insulti e body shaming che, se fossero avvenuti al contrario, sarebbero costati la radiazione dall'albo.

Sulla vignetta sessista contro Arianna Meloni la condanna è un po' più ampia, ma neanche troppo (vedi i grillini che solidarizzano con il Fatto). I vignettisti del Fatto si parano dietro il diritto di satira e addirittura l'articolo 21 della Costituzione. «Siamo già nel fascismo», dice uno di loro. E te pareva.

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