N on c'è miglior colpevole di un morto. Qui di morti ce ne sono addirittura due. Quindi c'è poco da stupirsi se a venire indicati come gli inventori di questo scandalo, efficacemente - ma non del tutto correttamente - etichettato come «il più grande depistaggio della storia d'Italia», siano due defunti, incapaci di difendersi o almeno di spiegare come sia accaduto che un balordo di terza fila sia stato trasformato in un superpentito di mafia, e le sue «sciocchezze» (copyright di Ilda Boccassini) sul massacro di Paolo Borsellino e della sua scorta siano state spacciate per verità assolute, portando alla condanna all'ergastolo di sette innocenti. I due geni del male, viene raccontato ora, furono un magistrato, Giovanni Tinebra, procuratore di Caltanissetta, e un poliziotto, anzi un «superpoliziotto», Arnaldo La Barbera, che avrebbero convinto Vincenzo Scarantino, ladro d'auto, a inventare accuse false. Morti Tinebra e La Barbera, sul banco degli imputati nel processo che si avvia a conclusione a Caltanissetta sono rimasti tre pesci piccoli, tre poliziotti accusati di calunnia.
Ma anche nella ricostruzione dell'accusa non sono certo loro tre ad avere architettato la gigantesca messa in scena, né sono loro a sapere quali inconfessabili interessi abbiano mosso il depistaggio. Gli ordini venivano dall'alto. Tinebra e La Barbera d'altronde sono i colpevoli ideali, non solo perché morti ma per il resto che emerge post mortem su di loro: il primo animatore della fantomatica Loggia Ungheria, il secondo a libro paga dei servizi segreti. Un profilo perfetto di depistatori al soldo di poteri oscuri.
Ma tutti gli altri dov'erano?
Basta frugare senza paraocchi gli archivi per avere contezza che se le «scemenze» di Scarantino gli vennero messe in bocca a forza di pestaggi e di ricatti nel carcere di Pianosa, e poi messe a verbale e portate con successo fino in Cassazione, questo avvenne sotto il naso di magistrati, giornalisti, politici che all'operato di La Barbera e della sua squadra applaudivano senza porsi domande. Salvo poi defilarsi, non ricordare, quando lo scandalo esplode. Uno per tutti: Gian Carlo Caselli, allora procuratore di Palermo. Che adesso dice di non avere mai utilizzato le dichiarazioni di Scarantino, ma nel luglio 1995, quando la moglie del «pentito» accusa La Barbera di avere fatto torturare il marito per convincerlo a riempire i verbali sulla strage di via D'Amelio, insorge a difesa del superpoliziotto, e accusa i giornali che danno retta alla donna di «contribuire a una campagna di delegittimazione dei collaboratori di giustizia».
Si dirà: allora nessuno poteva sapere che Scarantino mentiva. Invece no, perché almeno due pm in servizio nel pool che indagava sulle stragi sentirono puzza di bruciato e misero per iscritto i loro dubbi: Ilda Boccassini e Roberto Saieva. Ma il resto del pool andò avanti per la sua strada: non il solo Tinebra ma una sfilza di pm - Anna Maria Palma, Carmelo Petralia, Antonino Di Matteo - vengono indicati dalla figlia di Borsellino, Fiammetta, come coloro che presero per oro colato le dichiarazioni di Scarantino, che dopo avere detto di avere rubato la 126 da imbottire di tritolo e da piazzare in via D'Amelio aveva accusato come mandati una lunga serie di mafiosi che non c'entravano niente. Da allora i sopravvissuti si rimpallano le colpe, Di Matteo - nel frattempo approdato al Consiglio superiore della magistratura - dice che lui nel pool nemmeno c'era, e che anzi la prima a interrogare Scarantino era stata la Boccassini. Ma in questo valzer di verità l'unica certezza che emerge è quella di una gestione scellerata dei pentiti, con Scarantino che nel suo ricovero protetto ha persino i numeri di cellulare privati dei pm, e con loro si sfoga, chiede aiuti, conforto. C'è una frase che andrebbe resa immortale, perché riassume bene l'intero clima. Quando il pentito Scarantino si mette a piangere, a dire che lui in realtà della strage non sa niente e sta accusando degli innocenti si sente consolare così dalla Palma: «Mi disse di stare tranquillo e aggiunse: se non hanno fatto questo hanno fatto altre cose e pagano».
Come tutti i bravi pentiti, Scarantino ha ritrattato anche questo, dicendo che a istruirlo, a suggerirgli cosa dire, erano solo i poliziotti e non i pm. Il Csm ne ha approfittato per archiviare il fascicolo aperto dopo l'esposto di Fiammetta Borsellino, che accusava i pm di avere avallato le «gravissime, grossolane anomalie investigative» nell'inchiesta sulla strage. Niente da fare. La colpa ufficiale è tutta dei due morti, il procuratore Tinebra e lo sbirro La Barbera. Eppure è lo stesso La Barbera che quando nel 2001 lo cacciarono dall'Antiterrorismo per i fatti del G8 i giornali che oggi lo indicano come il genio del male descrivevano come «un grande poliziotto», «un generoso, imprevedibile mastino».
Resta da chiedersi: perché? Perché il «generoso mastino» si inventa il pentito, perché Tinebra e i suoi gli vanno dietro? È qui che mostra la corda l'etichetta di «depistaggio» affibbiata a questa storia. Perché sottintende che ci fossero altri, veri colpevoli da salvare: al di fuori della mafia, sopra la mafia. È il teorema Ingroia. Ma di questi mandanti eccellenti in trent'anni non si è mai trovata traccia.
E l'intero affare Scarantino va forse allora letto come una truce storia di furore investigativo, di ansia da risultato priva di scrupoli, di ambizione di carriera: nella convinzione di essere comunque nel giusto, perché dovunque si fosse colpito si sarebbe colpito bene.
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