Bisogna immaginarli quando saranno pieni, questi sette letti. Immaginare i volti di chi vi sarà disteso. Sapere che questi letti vedranno soffrire, combattere, morire. Ma vedranno soprattutto guarire, vedranno esseri umani tornare a respirare e a vivere. Sono i letti del modulo 4, all'ultimo piano di quella che era una volta la Fiera, il simbolo di Milano. E che torna ad essere il simbolo di una testa che si rialza, di una città che non si arrende all'incubo a occhi aperti che sta vivendo.
Accanto al modulo 4, altri sei identici. In fondo, uno più piccolo, da quattro. In tutto, cinquantatrè posti. É il primo blocco, la prima boccata d'ossigeno per un sistema sanitario allo stremo. Tra domenica e lunedì arriveranno i primi pazienti. Uomini e donne attaccate dal virus, e che non verranno scaricati sugli ospedali stracolmi di Milano e della sua regione, sulle camere operatorie trasformate in terapie intensive. E il cantiere va avanti, non si ferma. L'obiettivo dei duecento letti è a portata di mano.
Sono passati ventun giorni da quando Attilio Fontana, presidente della Lombardia, disse che «dalla Fiera c'è arrivata la disponibilità di spazi». Diciassette da quando dalla Protezione civile arrivò la doccia fredda, «non si può fare, non ci sono i letti». Sedici da quando entrò in scena, assunto per un euro di stipendio, l'uomo che ha reso tutto questo possibile, e che ora è anche lui in un letto d'ospedale: Guido Bertolaso. E i letti sono arrivati, sono arrivati i macchinari, la tac, gli impianti dell'ossigeno. Il miracolo si è compiuto, a costo di «un lavoro duro, rognoso, impastato di fatica e di ansia», come dice Enrico Pazzali, l'amministratore delegato di Fiera Milano, che in questa utopia fulmineamente realizzata è stato, insieme a Fontana, il primo a credere. E che ora si prende il diritto di dire senza modestia: «Abbiamo fatto in dieci giorni quello che in circostanze normali avrebbe impiegato anni».
Il primo blocco, quello dei cinquantatrè letti, apre ieri le sue porte alla stampa. Una manciata di ore, il tempo per le visite guidate, per qualche domanda. Quelle sui medici, sui duecento anestesisti e rianimatori che qui dovranno lavorare, e che ancora non ci sono tutti: «se non arriveranno dall'Italia li prenderemo dall'estero»; e così anche i cinquecento infermieri, tecnici, aiutanti. Quelle sui soldi che hanno dato linfa al progetto, pubblici e soprattutto privati, «ventuno milioni da mille donatori»: ed è un'altra prova che il virus per esplodere ha scelto una regione e una città capace di essere generosa oltre l'immaginabile. «Ci hanno reso possibile - dice Fontana - di realizzare non un ospedale da campo ma un reparto ad altissima tecnologia che diventerà un punto di riferimento per tutto il paese».
Il modulo 4, come tutti gli altri, non ha finestre. I letti sono distanziati. L'aria è stagna, sotto pressione. É il cuore della zona rossa, dove si entra e si esce solo ripuliti e disinfettati. Per i dieci, i quindici giorni necessari a riprendersi, nei momenti di lucidità avranno come unica vista il soffitto bianco, il pavimento bianco. Ma sapranno - fin dal primo momento, da quando l'ambulanza li avrà consegnati al triage - di essere arrivati nel posto giusto. Se possono essere salvati, qua li salveranno.
Per farcela, hanno lavorato ventiquattro ore al giorno. «Mai un litigio, e non volava una mosca», dice Pazzali. Fuori c'è il deserto della metropoli, le grandi case che sembrano navi hanno le tende abbassate, il grattacielo che stava sorgendo - l'ultimo dei tre, sull'area della Fiera di una volta - lasciato a metà. Ma qui dentro, con la colonna sonora dei martelli e dei trapani, hanno costruito una speranza.
Come hanno fatto? Lunedì, dal cuore del cantiere, un ingegnere ha scritto a un amico: «Succedono cose incredibili; alla sera decidi una modifica, alla mattina è già tutto fatto. In un giorno si preparano i locali dal nulla, con pareti piombate, gas medicinali e tutto quello che serve. Questa è un'Italia fantastica che non avevo mai visto».
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