Dietrofront di Boris: non mi candido

Johnson rinuncia alla corsa per la leadership tradito dall'alleato pentito Gove

Gaia Cesare

La battaglia per prendere il posto di David Cameron alla guida dei Tory e del governo di Londra sarà un duello tra Theresa May e Michael Gove. Con Boris Johnson che lascia tutti di stucco e annuncia: «Non mi candido». E il leader dei LibDem Tim Farron sintetizza l'uscita di scena dell'ex sindaco con un'analisi lapidaria: «Ha seguito il copione del Bullingdon (il club dei giovani scapestrati di Oxford): «Tu rompi e qualcun altro aggiusta».

Finisce così una delle giornate più convulse in casa Tory da molto tempo a questa parte. Cominciata con un tradimento del tutto inatteso. Chi di spada ferisce, di spada perisce. E Boris Johnson si tira fuori dalla corsa per la leadership del Partito Conservatore dopo aver ricevuto dal collega Michael Gove lo stesso trattamento che lui stesso ha riservato al premier David Cameron, quando lo lasciò di stucco annunciandogli che si sarebbe schierato a favore della Brexit. Tradimento? I deputati conservatori non hanno dubbi. Il ministro della Giustizia che ha condotto fianco a fianco con Boris la battaglia per la Brexit mai aveva lasciato trapelare di avere interesse a entrare a Downing Street. Si era persino definito «non qualificato» per quel ruolo. E invece ora si candida a sorpresa e avvisa il miglior alleato della sua decisione con una telefonata solo cinque minuti prima di dare l'annuncio. «Sono giunto con riluttanza alla conclusione che Boris non abbia la capacità di leadership o di costruire la squadra necessaria per i compiti che ci aspettano». Una stroncatura in pieno. Imprevista, anche se un'email inviata per errore qualche ora prima dalla moglie di Gove, commentatrice del Daily Mail, al destinatario sbagliato, lasciava trapelare le perplessità su Johnson. Pare legata alla considerazione che il cuore di Boris non battesse poi davvero forte per la Brexit. Ma è una stroncatura che lascia di stucco mezzo partito, perché «da cinque anni Gove dice che il posto di premier non lo interessa. La sua conversione sulla via di Damasco arriva abbastanza tardi», spiega attonito l'ex ministro Andrew Mitchell.

Eppure la mossa spinge Boris a tirarsi fuori dai giochi ma anche fuori dai guai. «Dopo essermi consultato con i miei colleghi e considerate le circostanze in Parlamento, sono arrivato alla conclusione che il nuovo leader non posso essere io». Un piccolo terremoto che riduce effettivamente la corsa al dopo-Cameron a una partita a eliminazione quasi diretta tra lo stesso Gove, attuale ministro degli Giustizia e Theresa May, oggi agli Interni, con quest'ultima favorita. In realtà i contendenti ufficiali sono in tutto cinque, tra cui anche Stephen Crabb, sottosegretario al Lavoro (no-Brexit), Liam Fox, ex ministro della Difesa (pro-Brexit) e Andrea Leadsom, sottosegretario all'Energia (pro-Brexit).

Alla fine, però, quella che molti nel partito definiscono come la «pugnalata frontale» a Boris, che vede così sfumare la sua grande chance di entrare a Downing Street, potrebbe rivelarsi il miglior favore all'ex sindaco. Senza il sostegno di Gove, Johnson non ce l'avrebbe mai fatta. E se anche l'avesse spuntata, la sua sarebbe stata una sfida con alte possibilità di fallire. Dunque meglio così, lasciare a un altro, probabilmente alla May, la difficilissima fase delle trattative post-Brexit. Con la ministra «di ferro», euroscettica che al referendum non aveva voluto tradire Cameron e si era schierata per il Remain, che ora promette: «Brexit vuol dire Brexit. Istituirò un ministero per l'uscita». Poi si candida a donna dell'unità: «Posso riunire il nostro partito e il nostro Paese».

L'anti-Merkel - come l'hanno già ribattezzata - è l'immagine della politica inglese che si tinge di rosa. Non solo la first minister di Scozia Nicola Sturgeon.

In casa Labour è solo questione di ore la candidatura di Angela Eagle nella corsa per la guida del Labour, dopo la sfiducia al leader Jeremy Corbyn. Intanto la Rete si scatena su Boris: «Come tutti i bulli: un codardo».

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