Due giocatori del Livorno arrestati per stupro "Fregati se chiama il 113"

Sono Mattia Lucarelli, figlio di Cristiano, e Federico Apolloni. Filmata l'intera serata

Due giocatori del Livorno arrestati per stupro "Fregati se chiama il 113"

«Ormai stuprare non basta più». La descrivono così, gli inquirenti milanesi, la triste realtà fotografata anche dalla nuova inchiesta per violenza carnale. Vengono indagati cinque giovani, due di loro finiscono ai domiciliari: e sono entrambi calciatori del Livorno, uno è il figlio del vecchio bomber Cristiano Lucarelli. Sono tutti ragazzi con i soldi. Ma per chi ha dato loro la caccia in quasi un anno di indagini, non sono diversi dai coatti della banlieue torinese che scatenarono l'inferno a Capodanno in piazza Duomo: vogliono l'impresa di branco, da filmare, di cui vantarsi.

Hanno fatto così anche Mattia Lucarelli, 23 anni, e Federico Apolloni, 22, i due calciatori che la sera del 26 marzo scorso vanno al Gattopardo, una vecchia chiesa milanese trasformata in tempio della movida. Sono con altri tre amici, è sabato notte e hanno in mente una cosa sola: individuare la vittima più facile, quella che non ha l'aria di poter dire di no.

La adocchiano fuori dal locale. È una ragazza americana 22enne, già stordita dall'alcol. Sono le prime ore del mattino. «Dai, ti offriamo un passaggio a casa». Ma invece che a Porta Romana, dove la ragazza abita, la portano in un appartamento del centro, a casa di uno dei cinque. Il video di quanto accade dopo è sparito, anche se se ne parla nelle intercettazioni (Apolloni a un amico: «Ti ricordi quella tipa del video?»). Ma esistono i video girati prima, la ragazza filmata e caricata in macchina, le risate su quanto sta per accadere. Il filmato che doveva documentare l'impresa diventa oggi la principale prova d'accusa: secondo la Procura la ragazza vi appare imbambolata, totalmente in balia degli eventi. «Se questa chiama la polizia ci in... tutti», dice Apolloni.

Apolloni e Lucarelli abusano di lei, senza ritegno e senza preservativo. Gli altri assistono, applaudono, sorridono. A violenza terminata, la riportano a casa come nulla fosse, sicuri di farla franca. Ma quattro giorni dopo lo stupro l'americana si presenta a sporgere denuncia. «In mano non avevamo niente», ammettono gli investigatori. Non un numero di telefono, non una foto. Il video di lei che rientra a casa, dopo lo stupro, non forniva indizi. È stato necessario un lavoro certosino, incrociando al computer i telefoni presenti intorno alla discoteca con quelli che riappaiono all'alba a Porta Romana, e incrociandoli a loro volta con le targhe delle auto che passano nelle due zone. È così che si arriva a circoscrivere i sospetti. Quando vede le foto di Lucarelli e Apolloni la ragazza non ha dubbi: sono loro. Partono le perquisizioni, ed ecco i telefoni col video. Ecco le chat con cui i cinque nei giorni successivi commentano l'impresa.

Il 20 dicembre scorso, la Procura decide di sottoporre la vittima a un nuovo interrogatorio, alla presenza anche dei difensori degli indagati. È un passaggio duro, ma necessario per consentirle di tornare in patria senza partecipare al processo. Lì la statunitense ripete le sue accuse: «Ho dei vuoti di memoria - dice - ma escludo di avere mai accettato di avere rapporti sessuali individuali né di gruppo».

A quel punto l'inchiesta è sostanzialmente chiusa, la pm Alessia Menegazzo potrebbe portare i cinque a processo a piede libero. Invece ieri fa arrestare i due principali indagati. Il motivo è semplice: anche se sanno di essere sotto inchiesta per l'americana, Lucarelli e Apolloni potrebbero colpire ancora. «La spregiudicatezza degli indagati», si legge nell'ordine di arresto, fa sì che «gli stessi potrebbero verosimilmente in altre occasioni approfittare di una giovane ragazza ubriaca fuori da una discoteca per adescarla», perché le intercettazioni dimostrano «l'incapacità degli indagati di comprendere il disvalore delle proprie condotte». In una stanza della questura di Livorno, intercettati, Apolloni e Lucarelli si dicono: «Ma cosa vogliono, non abbiamo fatto niente». Per la difesa è una prova di innocenza.

La stessa innocenza di cui ha parlato ieri, in un video sul suo profilo Instagram, Cristiano Lucarelli, ex attaccante del Livorno, sceso in campo per difendere il figlio Matteo. Per la Procura, significa invece che non si rendono neanche conto della gravità dei loro atti.

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