La prima è stata Darya Dugina ammazzata da un ordigno destinato al padre Aleksandr, simbolo del pensiero nazionalista russo. Poi, ai primi di marzo, è arrivato il fallito attentato a Konstantin Malofeev, fondatore del gruppo mediatico Tsargrad e portabandiera del cosiddetto «partito della guerra». Neanche un mese dopo una bomba, nascosta in una statuetta, ha messo a tacere per sempre Vladlen Tatarsky, il blogger-combattente reduce e narratore di tutti i fronti dell'Operazione Speciale. Ieri, infine, è arrivato l'attentato a Zakhar Prilepin, lo scrittore miliziano veterano di Cecenia e Donbass, ferito da un ordigno piazzato sotto il cofano della sua automobile. Ora sarà un caso, ma il comune detonatore di tutti questi attentati, rivendicati da sigle e gruppi apparentemente diversi, sembra l'eliminazione di intellettuali e ideologi diventati la cinghia di trasmissione ideologica e mediatica tra la linea del fronte e il grande pubblico nazionalista.
Dugin, Malofeev, Tatarsky e Prilepin erano, e restano, gli ideologi di un intervento in Ucraina considerato indispensabile per riconquistare la culla della Grande Russia ed evitarne la caduta sotto il tallone dell'Occidente. Con lo scoppio della guerra il loro messaggio politico si è trasformato nella sovrastruttura ideologica, culturale e mediatica di quel nazionalismo diffuso che rappresenta da secoli il cuore e l'anima della Russia profonda. Una Russia che nonostante le sanzioni economiche e le batoste subite da Kiev a Kharkiv ha continuato a garantire un consenso largamente maggioritario a Vladimir Putin. Una Russia pronta a vedere nella Wagner di Evgeny Prigozhin e nei ceceni di Kadyrov l'inevitabile alternativa all'inefficienza di un esercito abbandonato nelle mani di generali corrotti e incapaci.
Ora, però, s'avvicina una svolta cruciale. Grazie a decine di migliaia di soldati armati e addestrati dalla Nato l'Ucraina prepara un offensiva che potrà contare non solo sulle strategie messe a punto dall'intelligence occidentale, ma anche sull'imponente schieramento di carri armati, blindati e missili arrivati da Europa e Stati Uniti. Se, nonostante quest'apparato bellico, Kiev non riuscirà a sfondare il conflitto si trasformerà in un'interminabile guerra d'attrito. Ma se i soldati ucraini riusciranno a raggiungere le coste del Mar d'Azov e i confini della Crimea la Russia e il sistema di potere governato da Putin rischieranno non solo un sconfitta, ma una pericolosa implosione. In questo frangente una radicale trasformazione dell'apparato di potere accompagnata da una decisa svolta autoritaria di stampo militarista potrebbe rappresentare l'ancora di salvezza indispensabile a garantire la sopravvivenza del sistema putiniano. Un sistema affidato agli uomini simbolo dell'emergenza bellica come il capo della Wagner Evgeny Prigozhin, il leader ceceno Razman Kadyrov o quel generale Mikhail Mizintsev che giorni fa non ha esitato ad abbandonare la poltrona di vice ministro della Difesa per assumere un incarico di comando ai vertici della Wagner. Solo lo scudo di questi «falchi» pronti ad assumersi il ruolo di salvatori della patria potrebbe risparmiare a Putin la rabbia di una Russia mai troppo benevola nel corso della propria Storia con zar e generali sconfitti.
Una metamorfosi di potere di cui qualcuno intravvede i prodromi nelle sfuriate di Prigozhin pronto a tuonare contro «la feccia che non ci dà munizioni» ovvero quel ministro della Difesa Sergei Shoigu e quel capo di stato maggiore generale Valery Gerasimov accusati di costringere al sacrificio gli uomini della Wagner sul fronte di Bakhmut.
Ma per innescare una simile metamorfosi di potere e trasformare la Russia di Putin in una nuova Sparta diventerebbero quanto mai indispensabili i messaggi e le benedizioni ideologiche di personaggi come Dugin, Malofeev, Tatarsky e Prilepin. Pensatori e comunicatori di cui non a caso, forse, è stata decisa e tentata l'eliminazione preventiva.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.