Ci risiamo. Il centro-sinistra con il supporto massiccio del mondo intellettuale si lancia in una battaglia identitaria. Però, come spesso gli accade, lo fa senza un'adeguata ponderazione degli effetti delle proprie proposte.
Questa volta è il turno dello ius scholae. L'aula della Camera si troverà a discutere una proposta di legge che consentirebbe ai ragazzi under 18, nati in Italia o arrivati entro i 12 anni, di ottenere la cittadinanza italiana dopo avere frequentato «almeno 5 anni di scuola», anche prima del raggiungimento della maggiore età.
La proposta accomuna tutto il centro-sinistra, mentre il centro-destra è schierato con qualche eccezione individuale per il no. I numeri per l'approvazione, alla Camera, sulla carta ci sarebbero (Pd, M5S, i dimaiani, renziani, Leu), mentre in Senato il percorso parrebbe più accidentato.
La prima domanda da porsi nella valutazione del provvedimento è sul numero dei potenziali beneficiari del provvedimento. Un tentativo di conteggio deve tenere conto del requisito che sia stato svolto un ciclo scolastico di almeno 5 anni. Escludendo perciò gli alunni delle scuole primarie e quelli già maggiorenni, secondo i dati Istat del 2019/2020 i minori stranieri iscritti alla scuola secondaria di I e II grado ammonterebbero a quasi 330.000. Ma tale cifra deve ampliarsi, perché il loro numero è in costante crescita (in media +2% l'anno nell'ultimo quinquennio).
Certo, il numero dei nuovi cittadini non sarebbe di per sé sconvolgente. Però, si tratterebbe di una conclusione a freddo: il giudizio muta e di molto se si valuta l'impatto di contesto del provvedimento. La semplificazione nell'acquisizione della cittadinanza italiana da parte dei minori avrebbe verosimilmente un effetto moltiplicatore dei flussi migratori verso l'Italia.
Secondo la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 le persone sono libere di muoversi, di lasciare qualsiasi paese incluso il proprio e di ritornarci. Però, il Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966, ha precisato che restrizioni possano essere previste dalla legge al fine di proteggere la sicurezza nazionale, l'ordine pubblico, la sanità, ovvero gli altrui diritti e libertà. Gli Stati di arrivo fatte salve le situazioni che inducono a chiedere asilo e lo status di rifugiato hanno quindi il diritto-dovere di valutare i limiti e le condizioni per un ordinato inserimento degli immigrati nel proprio tessuto socio-economico. La rinuncia a questa funzione significherebbe per l'Italia perpetuare la situazione poco edificante che è sotto gli occhi di tutti. Immigrati senza alcuna formazione linguistica, nessuna conoscenza delle regole fondamentali del nostro paese, spesso lasciati nelle mani di organizzazioni criminali senza scrupoli. Il lavoro legale in queste condizioni rimane un miraggio. Prevale quello «in nero», preludio della ricorrente caduta nel mondo del crimine. La vita per gli immigrati si prospetta quasi sempre difficile e indecorosa, condannandoli all'emarginazione.
Si pensa davvero di superare questa situazione con la semplice introduzione dello ius scholae? Crederlo significa dare voce a un generico buonismo di maniera e all'accoglienza indiscriminata.
(Vincenzo Mannino già prorettore per le Relazioni internazionali a Roma Tre)
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