Travacò Siccomario (Pavia). Il peggio è passato. Da ieri Eitan è tornato in Italia. Tra le sue cose più care. Le carezze non gli sono mancate durante i quasi tre mesi di permanenza forzata a Tel Aviv, «ospite» dei nonni materni (Shmuel Peleg ed Ester Coen Peleg), ma ora - - le carezze - hanno il profumo delle mani della zia paterna, Aya Biran.
Eppure c'è qualcosa che stona in quella tenda messa davanti al cancello d'ingresso della villetta della famiglia Biran dove da ieri è ricominciata per Eitan una nuova esistenza, si spera finalmente al riparo da dolori e traumi che il destino - e l'umanità - gli hanno riservato nei suoi primi 6 anni di vita. Non sarà certo una tenda verde, posta «a protezione della privacy», a nascondere le gravi colpe che il mondo dei «grandi» ha nei confronti del mondo di questo «piccolo» divenuto oggetto di contesa tra due nuclei familiari, quello materno e quello paterno. Entrambi con di origine israeliana: il primo con «sede» a Tel Aviv, l'altro con «base» nel Pavese; il primo religiosamente più «rigido» rispetto alla fede ebraica; l'altro più «morbido» sull'interpretazione della dottrina.
È questo - inutile negarlo - l'elemento che ha scatenato la disputa tra i Peleg (ramo materno) e i Biran (ramo paterno). Lo diciamo subito a scanso di equivoci: tanto i Peleg quanto i Biran amano Eitan.
Ma questa vicenda dimostra purtroppo come il male possa originarsi anche da ottimi propositi. E al povero Eitan il male è stato inferto perfino da chi doveva aiutarlo a superare lo choc della perdita dei genitori e del fratellino nella nera mattina del 23 maggio 2012, giorno della strage del Mottarone.
Sappiamo invece com'è andate tra accuse incrociate, rancori, denunce, ricorsi, processi e - addirittura - un rapimento; veleni giudiziari, con tanto di arresti che, al momento, sembrano essersi sopiti, anche se la parte «soccombente» (i Peleg) pare tutt'altro che rassegnata a «chiudere la partita». Ieri, a fissare la tenda verde, c'era più di un giornalista, indeciso sul da farsi: suonare il campanello o rimanere fedeli al patto implicitamente sottoscritto con gli avvocati dei Biran, e cioè «spegnere i riflettori su Eitan». Peccato che chi oggi reclama lo «spegnimento» sia lo stesso che ieri ne sollecitava l'«accensione». Tanto che ora quella tenda verde montata per tenere lontano i «curiosi» sa un po' di ingratitudine, visto che se per i Biran la vertenza-Eitan si è conclusa a loro favore una parte di merito va proprio ai «riflettori» dei media. Ma da ieri il mondo dell'informazione deve rimanere fuori dal cancello. Niente più conferenze stampa in giardino a favore di telecamere. Niente più appelli compassionevoli. Il tempo è scaduto. Lo hanno deciso, di comune accordo, i Biran e i loro avvocati. Nell'«interesse di Eitan». Ieri gli zii si sono limitate a dichiarare: «Eitan sta bene ed è felice. Vi preghiamo di rispettare la nostra privacy».
Insomma, un «nuovo corso» all'insegna della discrezione della riservatezza. Che noi rispettiamo. Al pari di tutti gli abitanti della frazione di Travacò Siccomario che ieri hanno festeggiato - silenziosamente - il ritorno di Eitan nel suo «habitat naturale», così come lo ha definito la Corte israeliana che ha sancito il ritorno del bimbo in Italia. Un verdetto giusto in punta di fatto e di diritto che ha ribadito il diritto internazionale alla tutela dei minori sancito che - come nel triste caso di Eitan - diventano «oggetti» nelle mani di adulti «fuori controllo» se pur in «buona fede».
Eitan, felice di essere tornato nella casa dei suoi affetti più cari, ieri ha giocato col gatto e le cuginette, senza mai uscire di casa.
Lunedì per lui dovrebbe essere il primo giorno di scuola. Uscirà da quel cancello. Da dove speriamo scompaia anche quella tenda verde.Stiano tranquilli, i Biran: nessuna persona coscienziosa (compresi i giornalisti) li «disturberà».
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