Ergastolo a Maja per la strage di Samarate Il figlio: "Non perdono ma devo incontrarlo"

L'imputato uccise moglie e figlia, ferendo in modo grave il ragazzo Nicolò: "La condanna? Il minimo per lui. Ora ho bisogno di capire"

Ergastolo a Maja per la strage di Samarate Il figlio: "Non perdono ma devo incontrarlo"
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«È giusto così». Queste le parole, nette, di Nicolò Maja dopo la sentenza che ha condannato all'ergastolo suo padre. Il 21enne è l'unico sopravvissuto alla strage di Samarate, consumatasi nella notte tra il 3 e il 4 maggio dello scorso anno. Alessandro Maja uccise a martellate la figlia 16enne Giulia e la moglie Stefania Pivetta, di 56 anni. Il primogenito, invece, si salvò.

La sentenza è arrivata ieri dopo cinque ore di camera di consiglio e ha recepito la richiesta dell'accusa: carcere a vita con 18 mesi di isolamento diurno. La difesa aveva puntato tutto sul riconoscimento del vizio parziale di mente e sulle attenuanti generiche. Tutto respinto dai giudici della Corte d'Assise di Busto Arsizio. L'incubo familiare si dipana interamente in quella terribile notte del 3 maggio. Poi, all'alba del 4 maggio, due vicine di casa vedono l'uomo sdraiato davanti al cortile della villetta. Era a torso nudo, con indosso soltanto l'intimo, ed era coperto di sangue. Scatta subito l'allarme. «Finalmente ce l'ho fatta, li ho ammazzati tutti. Bastardi», si lascia sfuggire il 57enne con una calma glaciale, prima di essere portato via dai carabinieri. Dentro casa Stefania venne trovata inerme sul divano, ancora in pigiama, la giovanissima Giulia senza vita nel letto in camera sua. Il killer crede tutti morti, invece il figlio maggiore Nicolò - massacrato con un martello da carpentiere e un coltellaccio da cucina - sta ancora lottando tra la vita e la morte. Geometra e imprenditore, l'assassino si occupava di progettare nuovi spazi commerciali con il suo studio di consulenza e progettazione, soprattutto nel settore della ristorazione. Un tipo «vulcanico di idee, originali e stravaganti, ma concrete e funzionali», diceva di sé. Frequentava ristoranti, locali, caffè e bistrot a Milano, ma da circa vent'anni si era trasferito con la moglie dal capoluogo alla cittadina del Varesotto. Resta da capire il movente del doppio femminicidio; di certo in famiglia c'erano dei problemi ma lo stesso Nicolò, non appena ha riaperto gli occhi dopo settimane di coma, si è subito chiesto: «Perché?». Il 21enne non ha mai creduto all'incapacità di intendere e di volere del padre («era lucido», ha ribadito) e dopo la lettura della sentenza ha rivelato istantanee inquietanti: «Mi aspettavo questa sentenza - ha precisato dopo gli abbracci con i familiari -. Quando è stata letta, ho pensato a mia madre e a mia sorella. Prima, mio padre ha guardato la maglietta con le loro foto stampate e mi ha fatto il gesto del bacio. Penso che si sia pentito ma non basta, ha fatto una cosa che neanche nel pensiero poteva esserci». Nicolò, però, cerca ancora la verità. Ieri, presente ancora una volta in aula ma per la prima volta da quando è cominciato il processo senza la sedia a rotelle («volevo che mi vedesse in piedi»), ha detto: «Non lo perdonerò mai, ma vorrei incontrarlo per capire, per chiedere perché ha deciso di distruggere la nostra famiglia».

L'unico superstite della famiglia oggi vuole avere una nuova esistenza, nonostante le ferite fisiche e gli spettri psicologici.

Dopo l'uscita dal coma e una lunga serie di interventi alla testa il giovane, studi e brevetto da pilota, sta finalmente meglio: «Oggi (ieri, ndr) si volta pagina, mi sento liberato. Voglio avere una vita normale, diventare autonomo e mi piacerebbe realizzare il mio sogno di tornare a volare».

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