Un proteiforme caleidoscopio di immagini che sembrano scorrere come un album di figurine della follia: adesso una silfide bionda con caschetto dorato e poi un giovanotto barbuto accattivante, successivamente una scolaretta che sembra uscita da un manga giapponese e poi uno sguardo macho da pirata e via via con questo ritmo. Avete capito di chi sto parlando: Gabriele Defilippi. Si tratta di quell'inquietante personaggio asceso alle pagine della cronaca nera, muovendo quel teatrino di ombre cinesi proiettate in rete. Un personaggio con molte facce e con altrettante qualifiche: promotore, aspirante psichiatra, estetista, coiffeur e ancora preparatore atletico, manager della comunicazione e sondaggista. Come in una vita così breve possa concentrarsi un contenuto di mistificazione così controverso è più un quesito di filosofia dell'essere che di criminologia o psicologia forense.
Qualche tentativo di definire l'assassino e le relazioni psicologiche con la vittima dovrà essere fatto. Un tentativo di diagnosi lo facciamo noi: il disturbo psicologico di Gabriele Defilippi rientra nello spettro del narcisismo patologico che oltre all'adulazione di sé si accompagna alla megalomania e alla mitomania, inventando narrazioni impossibili per ingigantire il proprio Io. Sembra un caleidoscopio, quel gioco che facendo ruotare in un tubo degli oggetti colorati costruisce immagini ipnotizzanti. Il problema sta tutto nella necessità di riempire il vuoto abissale interiore come un idrovora, pompando immagini e sostanza degli altri e, in questo caso, di altre. Dentro tale dinamica di seduzione che ha avuto come vittima anche la figura della madre, Caterina Abbatista, è finita la ragazza 50enne mai cresciuta, rimasta all'ombra della coppia di genitori diventati anziani: Gloria preda perfetta per un vampiro. Dopo averla salassata, dilapida i risparmi della famiglia Rosboch facendoli scomparire nel pozzo nero della sua vita. Ma in questa mutevolezza sta la dimensione fondamentale di questa storia dal punto di vista criminologico. Il legale del ragazzo ha già richiesto una perizia psichiatrica, indispensabile a quanto pare.
È difficile sostenere che il soggetto fosse in piena salute mentale. È questo giudizio che rende i periti antipatici. Infatti, irrita la tentazione di shiftare da una valutazione personologica a quella psichiatrica. Se di ogni delitto si trova una spiegazione clinica, allora trasformiamo il reato in un manicomio. Credo che, invece, in questo caso si debba tenere il punto. Il soggetto aveva sicuramente un disturbo di personalità che non era strutturato in modo tale da modificarne la coscienza. Anzi, esisteva un'esemplificazione della coscienza tanto da farne l'espressione compiuta di una malignità, che va severamente punita, altrimenti finisce tutto in patologia, in buonismo pietista e in clinicismo sbagliato. Nel caso di Gabriele si dovrebbe mettere in luce la connessione tra perversione e delitto. La perversione è diversa dalla psicopatologia perché non attenua la coscienza, anzi la amplifica. Allora ben venga la psicologia per comprendere il male ma rimanga fuori la psicopatologia. Si tratta di un sociopatico caratterizzato dalla totale mancanza di empatia verso le persone.
Quest'incapacità di condividere i sentimenti può condurre ad atti di crudeltà efferata.
In questa mancanza di empatia l'altro appare sempre come un mezzo e mai come un fine. La malattia di cui soffriva Gabriele era dell'anima e non del cervello. Bisogna, quindi, scomodare le leggi dell'etica e della morale. E se le tacitassimo, allora avremmo reso un pessimo servizio alla civiltà.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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