Aveva fretta di ucciderlo e poco tempo per farlo. Erano le sue ultime ore di libertà e ancora non sapeva che la vita che stava per spegnere in realtà era la propria. Si confuse tra la folla dietro le transenne di un'uscita secondaria dell'Hilton Hotel di Washington e aspettò il suo momento. L'ultima cosa che aveva fatto prima di uscire di casa era stato scrivere un biglietto alla ragazza che agitava le sue notti, l'attrice Jodie Foster, la prostituta bambina del film Taxi Driver. Era pazzo di lei. O forse pazzo e basta: «Jodie, abbandonerei in un attimo l'idea di uccidere Reagan se solo potessi conquistare il tuo cuore» Anche Ronald Reagan viene dal cinema e da due mesi è il quarantesimo presidente degli Stati Uniti d'America. Quei dieci metri che deve percorrere dall'ingresso dell'Hilton alla sua Limousine blindata sono gli unici momenti pubblici di una giornata pieni di impegni. Di solito indossa un giubbotto antiproiettile ma ha deciso che i pochi passi che dovrà fare su quel marciapiede non valgono un'intera giornata di scomodità. Deve solo entrare e uscire dall'Hilton, protetto dalla scorta, e poi tornare alla Casa Bianca. Pensa: che pericolo vuoi che ci sia? Prima di lasciare il pranzo di ringraziamento dell'Unione dei lavoratori, dove tiene l'ultimo discorso della giornata, dice: «Il nostro destino non è il nostro fato, il nostro destino sono le nostre scelte». Sembra una profezia.
Appena fuori dall'albergo Michael Putzel, corrispondente dell'Ap, lo chiama da dietro le transenne. Vuole fargli una domanda al volo, grida per farsi sentire «mister President! mister President!». Reagan si volta, sorride, rallenta. E in quel momento per John Hinkley, 26enne dell'Oklahoma, cantautore fallito, stalker di Jodie Foster, perseguitato a sua volta da manie ossessive e depressioni periodiche, diventa il bersaglio perfetto
Johnny il pazzo spara sei colpi in tre secondi con una calibro 22 che ha nascosto nella tasca. Il primo colpisce alla testa il portavoce della Casa Bianca Jim Brady: resterà per sempre su una sedia a rotelle. Il secondo prende alla nuca l'agente di polizia Thomas Delahanty. Il terzo centra allo stomaco l'agente segreto Tim McCarty che piroetta su se stesso come una ballerina impazzita. Il quarto colpisce un vetro della macchina, il quinto, anche se Jerry Parr il capo scorta del presidente scaraventa Reagan dentro l'auto meno di un secondo dopo il primo sparo, colpisce il retro della Limousine, rimbalza tra i due centimetri di spazio tra l'auto e la portiera aperta, e si infila con un angolo di trenta gradi sotto il braccio sinistro del presidente. È lì che Jerry, entrato per caso nella Storia dalla portiera di una Limousine, sceglie di cambiare il futuro del mondo. Come fosse dentro una profezia: «Il nostro destino non è il nostro fato, il nostro destino sono le nostre scelte».
Parr, più somigliante a papà Cunningham di Happy Days che al Clint Eastwood di Al centro del mirino, ha quarant'anni, viene da Montgomery, in Alabama, è laureato in filosofia ed è il capo del Secret Service, l'agenzia federale incaricata di proteggere la vita del presidente degli Stati Uniti. Non ha il fisico di James Bond ma ha la reattività di un Navy Seal. Decide che quello sarebbe stato il lavoro della sua vita quando a nove anni papà lo porta al cinema a vedere il film Code of the Secret Service: il protagonista è proprio un agente di scorta del presidente, Brass Brancroft, l'attore che lo interpreta, quando si dice la coincidenza, si chiama Ronald Reagan. Che dice di quel film: «È il peggiore che io abbia mai interpretato». Comincia tardi a fare l'angelo custode. Lavora per anni per la Florida Power & Light Company, società di servizi energetici di Juno Beach, quando si presenta alla selezione per i secret agents ha già 32 anni ed è il più vecchio delle reclute. Gli chiedono se è consapevole dei rischi che comporta il suo nuovo lavoro. Risponde: «Sono nè più, nè meno di quelli che si corrono a lavorare nell'elettricità...» Comincia tardi ma arriva alla svelta. Lo assegnano subito alla scorta di John Kennedy, poi a quella di Lyndon Johnson per i funerali di Eleanor Roosevelt, prende in custodia anche Marina Oswald la moglie russa del cecchino di Dallas. Dirige il sistema di sicurezza di 56 capi di Stato in visita ufficiale: la regina Elisabetta, l'imperatore Hirohito, Papa Giovanni Paolo II. Passa alla scorta del presidente Carter, poi a Reagan. Fino a quel giorno di marzo che non finirà mai. «Sentii gli spari e capii subito cosa stava succedendo: in un certo senso era il momento che avevo aspettato di vivere da sempre». Fa scudo al presidente con il suo corpo, poi grida «Decolla!» a Drew Unrue, l'autista: «Mi sono girato a guardare dal finestrino posteriore, ho visto tre corpi sul marciapiede e ho pensato che l'avevamo scampata per un pelo». Si sbaglia. Reagan sta morendo e nessuno, compreso lui, se ne è ancora accorto.
Jerry lo scruta con attenzione: non ci sono ferite, non c'è sangue, non c'è niente, eppure Reagan non riesce a respirare. Tossisce sangue e ha un dolore tremendo sulla parte sinistra del petto: «Forse mi hai rotto un costola spingendomi dentro la macchina» gli dice senza rimprovero. Invece è una pallottola che si è conficcata nel polmone. Sulla Connecticut Avenue, Parr sceglie il suo destino, quello del presidente e quello del mondo: ordina l'inversione di marcia, si va al George Washington Hospital, a cosa fare si vedrà. Il crollo del Muro, il collasso dell'Urss, la fine della Guerra fredda, la Reaganomics, la rivoluzione liberale, i magnifici anni Ottanta, passano da una semplice comunicazione radio: «We want to go to the emergency room of George Washington», vogliamo andare al pronto soccorso del George Washington. Alla Casa Bianca non sarebbe arrivato vivo. «Se Jerry non ci avesse badato - racconta Nancy - quel giorno avrei perso il mio Ronnie».
Quando entra in ospedale ha perso un quarto del sangue. Chiede: «Avete una sedia a rotelle?». Poi crolla. Sedici minuti dopo gli spari nessuno si è accorto del foro di proiettile sotto la manica sinistra. Pensano sia un infarto: gli sono rimasti venti minuti di vita.
Solo quando il dottor Wesley Price gira Reagan su un fianco vedono il foro: la pallottola è ancora dentro e l'emorragia sembra inarrestabile. Decidono di operarlo. «Spero siate tutti convinti repubblicani...» sorride il paziente più importante d'America. Quando si sveglia la mattina dopo la prima cosa che chiede è: «Dov'è Jerry?».
«Era orgoglioso del suo lavoro - spiega Carolyn, la signora Parr - Aver salvato il presidente lo considerava un grande privilegio». Al punto che si convince sia stato Dio a sceglierlo per quella missione, per quel giorno infinito «il migliore e il peggiore della mia vita». Per questo quattro anni dopo, raggiunta la pensione, prende i voti diventando pastore della Chiesa di Washington D.C. Entra a far parte del Consiglio di amministrazione della Joseph's House, un'organizzazione che assiste i malati di Aids, fonda la Servant Leadership School, ne ll'aprile del 1992 guida uno scuolabus per più di tremila miglia da Washington fino a San Salvador per portare cibo, vestiti e calore a un orfanotrofio. É instancabile, protettivo e generoso come quando era bodyguard. «Jerry non è stato solo uno dei più bravi agenti dei servizi segreti, ma uno degli esseri umani migliori che abbia mai conosciuto - diceva Nancy con nostalgia - Era umile ma forte, riservato ma fiducioso e benedetto da un grande senso dell'umorismo. Non sorprende che lui e mio marito andassero così d'accordo».
Jerry se ne è andato quattro anni fa, ucciso da un'insufficenza cardiaca.
Il 16 settembre di quest'anno avrebbe compiuto 90 anni. Prima di andare via aveva postato una foto su Twitter abbracciato alla sua Carolyn. Sotto ha scritto la sintesi di quella che è stata la sua vita: «L'amore è tutto».
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.