Forse cambierà il finale Ma la tragedia di Marco resta un romanzo nero

Per i suoi fan la nuova inchiesta ha un sapore catartico. Però non scaccia il lato oscuro del loro idolo

Forse cambierà il finale Ma la tragedia di Marco resta un romanzo nero

È la vittoria di mamma Tonina, dieci anni dopo. Nient'altro è, la riapertura dell'inchiesta sulla morte di Marco Pantani, se non il premio che la giustizia concede alla cocciuta battaglia di una madre lacerata, incapace di accettare l'idea del figlio morto per autodistruzione. Questa madre aveva il disperato bisogno di un nemico e di un colpevole, per spiegarsi una parabola tanto tragica. E poco conta che Marco fosse già morto dentro da molto tempo prima, prima dell'overdose, o del suicidio, o dell'omicidio. Morto di disperazione e di cocaina, sempre più inabissato nei deliri di un'epopea maledetta, arrivata ai culmini più elevati del successo e poi brutalmente precipitata nella polvere dell'umiliazione: troppo, veramente troppo per un animo così fragile.

È solo la notizia di una riapertura d'inchiesta, niente di più. Ma tanto basta: per la famiglia e per il popolo di Pantani è una sentenza definitiva, oltre la Cassazione, l'unica vera e possibile. Marco ucciso, Marco vittima, Marco martire. E c'è da scommettere sarà così anche nel caso - per niente remoto - che la nuova piemme (primo incarico, tanti auguri) arrivi a scartare l'ipotesi dell'omicidio. Questo è la classica situazione in cui la giustizia viene tirata da una parte e dall'altra a seconda dei partiti in gioco, e se per caso dichiara verità opposte ai propri desideri diventa una giustizia inetta. Proprio come quella del piemme Gengarelli, il primo ad occuparsi della torbida vicenda, dieci anni fa.

Un pezzo alla volta, la storia di Pantani diventa così sempre più nera, torbida, tenebrosa. Un tempo il suo volto era associato a bandane colorate, braccia alzate, cime alpine, maglie gialle e maglie rosa. Con il tempo, via l'iconografia felice per lasciare il posto al florilegio di immagini su squallidi residence di riviera, camorristi, spacciatori, papponi, entreneuse, coca, lividi, sangue e mistero. Tanto malavitoso mistero.

Ma la battaglia di mamma Tonina non può concedersi pace: dimostrare l'omicidio significa riabilitare in qualche modo la figura del suo Marco. Lei era certa di complotti e nemici già dal fatidico giorno di Campiglio, lei e l'intero entourage di Cesenatico evocavano vendette di stampo mafioso firmate dai poteri forti, gente altolocata che non poteva accettare la personalità libera di Marco. Negli ambienti della Romagna ferita erano tutti sul libro nero: la Gazzetta che aveva manipolato i controlli antidoping per liberarsi di un campione scomodo, Squinzi che con la sua Mapei era in guerra con Pantani per questioni di regolamenti sul doping, Agnelli che non perdonava l'affronto di aver firmato un contratto di sponsorizzazione con la Citroen. Si parlava pure di Berlusconi, per non meglio precisati motivi d'invidia. Tutti contro Marco, il figlio eroe, il figlio duro e puro che il sistema cinico aveva deciso di eliminare.

Figuriamoci dopo una morte tanto tremenda. La battaglia è diventata globale. Da un punto di vista giuridico, battaglia sacrosanta: se davvero qualche tagliagola ha fatto bere una bottiglia di acqua e coca al povero Marco, per castigarlo di chissà quale sgarbo, quel tagliagola deve marcire in galera. Non ci piove. E anzi guai agli investigatori di allora se davvero si dimostrasse il clamoroso abbaglio, peggio ancora fossero negligenza e sciatteria. Ma è del punto di vista umano, diciamo pure sentimentale, che l'ipotesi omicidio - se dimostrata - sarebbe comunque un patetico fallimento. Senza paura delle parole, bisogna chiedersi: cosa aggiungerebbe alla tragedia personale di Marco, alla sua implosione spirituale, sapere che non è morto per overdose autonoma, ma indotta da qualche criminale? Niente, non aggiungerebbe e non emenderebbe niente. Niente sarebbe riscattato. Niente di sostanziale verrebbe spiegato diversamente. L'inchiesta non svolgerebbe la funzione catartica che la mamma sogna da dieci anni. Prima, molto prima di quel finale nel residence di Rimini, Marco era umanamente finito. I gregari più fedeli e disinteressati, il Sert di Ravenna che cura le tossicodipendenze gravi, persino don Mazzi che voleva portarselo in una comunità del Sud America per allontanarlo dalla palude romagnola: tutti respinti con perdite, nell'ultima fase. Marco vagava semi-incosciente nel vortice inarrestabile di due polarità nefaste: depressione e cocaina, cocaina e depressione. I famosi mostri che si alimentano a vicenda, fino al baratro. Questo per dire che Marco non si era ritrovato per puro caso nella stanza di Rimini, solo, in balìa degli scarafaggi di certi giri: era finito lì al termine di un lungo, penoso, orrendo viaggio personale, cominciato a Campiglio nel giugno del '99. Una vertiginosa discesa all'inferno senza possibilità di scampo, perché qualsiasi forma di aiuto era sistematicamente rigettata dal suo stesso protagonista. Aggiungere adesso questo giallo al librone noir dei grandi misteri italiani, assieme a Ustica e all'Italicus, rende ancora più cupo e più tossico il senso della storia. Arrivare alla verità - se mai si arriverà, perché in fondo stiamo ancora sospettando che gli americani abbiano girato in uno studio lo sbarco sulla Luna - arrivare alla verità è un atto dovuto, come dicono alla procura di Rimini.

Ma nessuna rilettura postuma sposterà di una virgola il senso ultimo dell'intera tragedia: il finale di Pantani è comunque un finale di cronaca nera. Ferocemente nera. Con una certezza: in nessun caso arriverà mai l'unico balsamo che adesso servirebbe davvero, la consolazione.

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