Tutta colpa di un tweet. Quando il giorno dell'insediamento di Joe Biden, la giornalista del New York Times, Lauren Wolfe ha visto le immagini dell'aereo del presidente eletto atterrare alla Joint Base Andrews diretto a Washington, non ha resistito e si è precipitata alla tastiera per condividere con tutti il suo entusiasmo: «Ho i brividi». È bastato quel messaggio schizzato sui social per scatenare contro di lei una campagna di bullismo social, additato dagli utenti e dai commentatori di destra come un esempio di pregiudizio della stampa liberal nei confronti di Donald Trump. Ma non solo. A dimostrazione del clima più che teso, praticamente isterico che si respira in questo periodo negli Stati Uniti, è stata la reazione del suo giornale che tempo due giorni, ha licenziato la sua ormai ex giornalista gettando, se possibile, altra benzina sul fuoco. Le dure leggi della cancel culture. E non sarebbe la prima volta. In estate l'opinionista ed editorialista dello stesso quotidiano, Bari Weiss era stata costretta a dimettersi, aveva scritto una lettera durissima denunciando il clima di terrore creato nei confronti di chi non condivide le idee dominanti all'interno della redazione. Dopo il licenziamento della Wolfe, avvenuto il 21 gennaio, il New York Times è stato a sua volta sommerso dalle critiche, al punto da dover chiarire la propria scelta. Prima di tutto il quotidiano, tramite il suo management, ha tenuto a precisare che Wolfe aveva una collaborazione, non un contratto fisso e poi: «Circolano molte informazioni inaccurate», si è affrettata a riferire la portavoce Danielle Rhoades, spiegando che «per ragioni di privacy» non è possibile spiegare nel dettaglio le cause del licenziamento. E tuttavia, ha aggiunto, «Non licenziamo qualcuno per un singolo tweet». La giornalista in effetti aveva anche scritto che era infantile per Trump non mandare un aereo militare a prendere Biden, e l'aveva poi cancellato ammettendo che fosse inaccurato.
Nella vicenda è intervenuto anche il sindacato dei giornalisti del New York Times, che ha detto di voler «indagare» le circostanze del licenziamento della giornalista. Da parte sua, la Wolfe, ha denunciato gli insulti che le sono giunti attraverso i social media dopo il suo tweet e l'eccesso di attenzioni da parte di altre testate conservatrici, come il New York Post, che l'ha fotografata mentre passeggiava con il cane, ma non è entrata nel merito del suo licenziamento.
Tra i difensori di Wolfe c'è anche Alyssa Milano, attrice attivista e paladina del #metoo, che ha twittato l'hashtag #rehireLauren. Mesi fa Milano aveva scritto che la cancel culture è un'arma della destra, non degli ultrà liberal, ora si spende per la causa della giornalista chiedendo ai suoi 3 milioni e mezzo di follower di fare pressione sul «New York Times».
Il suo popolo non ha atteso a lungo e subito molti di loro sono passati alle minacce: riprendete Wolfe o cancello l'abbonamento. Una lotta che la stessa giornalista ha pregato di non fare difendendo il valore del giornale. Ma ormai è chiaro che la battaglia sta diventando sempre più una grande guerra.
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