Amate i profughi, sono l'Italia dolorante

Dobbiamo spezzare con loro il nostro pane. Sono i fratelli percossi dalla sventura

Amate i profughi, sono l'Italia dolorante

Non basta soccorrere i profughi che i treni e le tradotte dal Veneto rovesciano ogni giorno a migliaia e migliaia nelle nostre città. Bisogna comprenderli. Non basta comprenderli: bisogna amarli. La ospitalità dev'essere - soprattutto - amore.

La commiserazione che si esaurisce nella serie delle interiezioni esclamative non è di un popolo forte. La pietà in se stessa può apparire pesante e ingrata a chi riceve. Quasi sempre il gesto della mano che porge nobilita l'offerta anche se esigua.

Bisogna amare i profughi. È il comandamento di quest'ora. Amarli come si ama l'Italia. Essi sono l'Italia viva e dolorante. Dobbiamo spezzare con loro il nostro pane. Sono nella nostra famiglia i fratelli percossi dalla sventura. Non hanno più nulla. La loro casa dov'è? Qualcuno volgendosi indietro nella fuga precipitosa l'ha vista già preda alle fiamme. Quasi tutti non sperano più di ritrovare ancora una casa quando l'ora del ritorno sarà suonata. Bisognerà ricostruire dalle fondamenta.

Non c'è da nutrire illusioni - dopo l'esperienza triennale della guerra - sulla longanimità sulla civiltà dei barbari culturizzati. Tutto ciò che i loro complici dell'intervento vanno cautamente propalando è pura sfrontata menzogna.

Deserto nei campi rovine nei paesi: ecco la sorte che attende il Friuli dolce e sacrificato. Tutti i profughi non hanno più nemmeno una famiglia.

Il ciclone improvviso ha separato violentemente ha sbalestrato agli opposti orizzonti i componenti delle famiglie. Ora si «cercano». Ci sono delle madri che ricercano i figli dei figli che domandano notizie delle madri. L'esodo è stato così repentino e tumultuoso che le famiglie sono state sommerse nella moltitudine senza nome.

Ci sono migliaia di «dispersi». La marcia al di là dei fiumi verso il suolo della Patria non minacciato ha le tappe segnate di morti. Sono stati travolti dalle acque o la pioggia e il freddo o la fame li ha uccisi o sono stati straziati dalle bombe e dalle mitragliatrici degli aeroplani tedeschi.

Queste folle dolenti sono state lasciate per giornate e notti intere lungo i binari morti delle stazioni o abbandonate nell'aperta campagna alla sete al freddo alla fame. Dopo viaggi interminabili sono giunte fra noi. Ma la loro odissea non è finita; si può dire che comincia. Fra le mura della grande città si sentono ancora «disperse». La grande città può sembrare loro egoista. Non vedono i segni evidenti di una partecipazione al loro dolore. La gente le guarda appena. E forse in questo grande mare umano in movimento dalla mattina alla sera esse sentono più acutamente la loro condizione di naufraghi.

Ma nelle grandi città l'egoismo è nelle cose. Viviamo stretti pigiati accatastati in questi alveari in queste caserme; siamo - pur vivendo nella stessa casa allo stesso piano - estranei gli uni agli altri. Nelle nostre case moderne non c'è posto non ci sono i focolari imponenti come nel Friuli. Il nostro spazio è misurato le scale non uniscono più; i cortili fra le mura grige rassomigliano a quelli delle prigioni. Ma nelle vecchie città di provincia l'ospitalità per i profughi - l'ospitalità della casa - è più facile. Le case non sono moderne. Non sono sempre brutte scatole di pietra. Mancano del comfort medio-borghese ma sono grandi. Il posto per i nuovi venuti c'è sempre. Ed è la casa che i profughi cercano con un desiderio fatto di nostalgie e di rimpianti. Date le case ai profughi! Requisite gli appartamenti vuoti; requisite - almeno! se non avete il coraggio di misure più radicali - gli appartamenti le ville le fabbriche gli alberghi dei sudditi nemici. Ma soprattutto non fate della burocrazia dinanzi ai bisogni primordiali della vita. Non avvelenate il soccorso. Che importa il denaro se è accompagnato da una smorfia di indifferenza di noia?

Non bisogna stupirsi né tanto meno irritarsi se qualche volta accade che i profughi siano insistenti o si lagnino e esagerino... È umano. Non tutti sanno affrontare la rovina con animo fiero. Molti si accasciano. Il passaggio tra l'ieri e l'oggi è stato troppo rapido e tempestoso. L'equilibrio delle anime è profondamente turbato. Un po' di tempo dovrà passare prima che sia ristabilito.

Ma soprattutto l'amore nazionale deve andare con predilezione maggiore verso i profughi che sono più profughi degli altri. Verso quelli che non hanno parenti conoscenti amici: che non hanno nessuno. Sono costoro che devono sentire onnipresente fraterna devota la solidarietà della Nazione che li protegge li soccorre li fa suoi. Si cerchi che questa solidarietà acquisti il meno possibile l'aspetto odioso di una elemosina timbrata e burocratizzata. Forse un po' di burocrazia è inevitabile. Ma accanto alla burocrazia al disopra delle sue pratiche dei suoi numeri dei suoi sussidi deve esserci caldo il soffio dell'amore.

L'invasione nemica deve renderlo più delicato e profondo deve stringere più forte il vincolo fra le genti che

vivono dalle Alpi alla Sicilia oggi affratellate nel comune dolore e nel comune proposito di lottare e di vincere; unite domani nella esultanza e nella riconsacrazione della Patria riconquistata sino a Trieste!

28 novembre 1917

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