Eliminare dal codice penale il reato di aiuto e istigazione al suicidio aprirebbe un vuoto normativo dalle conseguenze ingestibili e imprevedibili: perché se vi sono episodi come quello di Dj Fabo, dove la volontà di morire era ferrea e ripetuta, ve ne sono altri in cui le certezze son minori, e il confine tra i desideri del malato e quelli di chi gli sta intorno è più labile. Il reato rimanga dunque in vigore: e siano i giudici, caso per caso, a adeguare le loro sentenze ai casi specifici.
È questo, in sostanza, uno degli argomenti con cui il governo, attraverso l'Avvocatura dello Stato, ha deciso di scendere in campo nella drammatica vicenda di Fabiano Antoniani, meglio noto come Dj Fabo, e del radicale Marco Cappato che lo accompagnò in Svizzera a suicidarsi nel febbraio 2017, e che poi si autodenunciò alla Procura di Milano. Ne è nato un processo toccante e drammatico, al termine del quale i giudici della Corte d'assise hanno deciso di non decidere: e di mandare tutto alla Corte Costituzionale perché valuti la legittimità dell'articolo 580 del codice penale, che punisce col carcere «chiunque determina altri al suicidio o ne agevola l'esecuzione».
Nei giorni scorsi, il fronte che difende Cappato aveva raccolto quindicimila firme - tra cui quelle di illustri giuristi - per chiedere al governo di non costituirsi davanti alla Consulta in difesa della legge. Invece il 30 marzo scorso da Palazzo Chigi è arrivata, siglata dal sottosegretario Maria Elena Boschi, l'ordine all'Avvocatura generale dello Stato di scendere in campo. A suggerire la scelta è stato il ministro della Giustizia, Andrea Orlando.
L'argomento è delicato, perché porta davanti alla Consulta un tema complesso e sofferto come il «fine vita», sul quale l'evoluzione del comune sentire è continua. Nel caso specifico, poi, sono entrate in ballo le immagini in tv del processo a Cappato, i filmati di Dj Fabo morente, le sue condizioni disperate. E l'impossibilità per l'uomo, totalmente paralizzato, di suicidarsi senza aiuti.
Per questo, il ministero della Giustizia in una nota rimarca che non si tratta di una mossa contro Cappato ma a difesa del principio generale. Ad argomentare la mossa è stata Gabriella Palmieri, l'avvocato dello Stato più esperta di questi temi. Nelle diciassette pagine della sua memoria chiede in primo luogo che la questione sollevata dalla Corte d'assise di Milano sia dichiarata inammissibile perché irrilevante nel caso Dj Fabo: il processo a Cappato poteva essere portato a conclusione senza una condanna anche con la norma attuale, interpretandola in modo avanzato. Tant'è vero che al termine delle indagini preliminari il pm aveva chiesto di archiviare il procedimento.
Nel caso che la Corte scelga di entrare nel merito della vicenda, l'Avvocatura afferma che spetta al Parlamento stabilire in quali casi e con quali pene questi fatti debbano essere sanzionati, sapendo che il criterio di guida è la libertà di scelta del malato. Bisogna avere cioè la certezza che chi viene aiutato a morire abbia intrapreso questa strada liberamente e consapevolmente, senza suggerimenti che possono sconfinare nell'istigazione. Il tema, d'altronde, è così delicato che la stessa Corte europea dei diritti dell'Uomo (le cui decisioni vengono citate con insistenza dalla difesa di Cappato) ha lasciato ampi margini di discrezionalità ai paesi che aderiscono alla Convenzione.
Secondo il governo, dunque, la norma deve sopravvivere, perché l'alternativa è un far west dove tutto diventa lecito.
Sarà poi il giudice a valutare caso per caso, anche perché la forchetta delle pene previste (da cinque a dodici anni) è così ampia da poter adeguare le condanne ai comportamenti specifici. La parola ora passa alla Corte Costituzionale: che difficilmente terrà udienza prima dell'autunno.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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