La prima grande sconfitta del politicamente corretto

La vittoria di Trump mette fine al dominio dell'elite democratica e al senso di colpa per i mali del mondo

La prima grande sconfitta del politicamente corretto

«La mente (che si ritiene) cronicamente colpevole diventa legata alla sua colpa perché è il distintivo della sua innata superiorità» dice sull'America Thinker la psicanalista Deborah Tyler esaminando le dinamiche della politica di Obama e di Hillary Clinton. Gli è stato fatale: riconoscere le proprie colpe e quindi i propri limiti è una molla di superamento dei problemi procurati a se stessi e agli altri. Trump, un tipo alquanto dedito all'autoammirazione e all'esaltazione del proprio operato, ci fa stare un po' in pensiero quando segna a dito ispanici, immigrati, terroristi islamici... Eppure proprio questa è stata una delle molle basilari delle sue elezioni: togliersi dalla faccia lo schiaffo della colpa disegnata dalla presidenza Obama come base della politica americana, e della sua etica interna e esterna. Colpevoli, responsabili, figli e padri della colpa: gli americani non hanno avuto più voglia di sentirsi tali.

Tutti quanti siamo ormai abituati a fustigarci per questo: la guerra? L'abbiamo scelta noi. Immigrati? Sono la conseguenza di una politica imperialista. Terrorismo islamico? Frutto della discriminazione ideologica e sociale islamofobica cui abbiamo destinato i mussulmani; difficoltà di integrazione fra bianchi ed etnie diverse? Conseguenza del nostro razzismo che diventa discriminazione, violenza, prepotenza dei poliziotti; sessismo e omofobia? Vizi della società capitalistica; inquinamento, clima, cibi adulterati? Risultato di feroci politiche di sfruttamento. Qualsiasi cosa sarà Donald Trump, oltre alle molte motivazioni sociali e culturali che hanno decretato la fine più che del dominio dell'elite democratica di quella legata al Chicago Style di Obama, bisogna considerare l'esplosione di rabbia che la gente ha voluto esprimere sentendosi ripetere tutti i dogmi di un politically correct che li crocifigge allo schiavismo storico, che li costringe a considerarsi colpevoli dei mali del mondo, un pericolo pubblico, un invasore coloniale invece di quell'ottimo amico americano che corre in aiuto dai tempi in cui ha sconfitto il nazismo a prezzo di tante vite. E che diamine! Può mai essere l'ideologo capo Oliver Stone, che ha riscritto la storia d'America sostenendo che Hiroshima e Nagasaki sono state bombardate solo per far dispetto agli Usa, che Truman era psicopatico per il suo «gender issues», che Kennedy è stato ucciso dai repubblicani perché non voleva fare la guerra con l'Urss... Via via si arriva fino all'attacco dell'11 settembre come autoinflitto dall'America a se stessa.

Obama, e Clinton sono agli occhi di chi ha votato Trump, l'immagine di un americano penitente che non ha ragione di essere. Il presidente Obama non ha saputo spiegare alla mamma di un ragazzo ucciso dal terrorismo islamico perché si è rifiutato di usare questa espressione; nei suoi viaggi in Arabia saudita, in Germania, in Giappone sostenendo la priorità del dialogo ha cancellato le loro responsabilità e sottolinenando sempre le proprie. E a casa ha giocato basso sugli incidenti razziali in cui, alla fine, sono stati uccisi cinque poliziotti di Dallas e ha, anzi, spiegato che essi «erano stati uccisi durante una protesta pacifica in risposta all'uccisione di Alon Sterling a Baton Rouge» e che «la condotta della polizia era l'oggetto della manifestazione».

Di nuovo un'autoaccusa rispetto a una questione etnica durissima, in cui anche i neri sono implicati nei disordini e nelle uccisioni.

Ma la colpa è sempre maggiore della volontà di risolvere il problema, maggiore del problema stesso, come dire che il terrorismo è «random» casuale e psicopatologico. Troppo senso di colpa, esagerare non serve. E la Clinton, oltretutto, ha dimostrato che se ne può avere tanto sulle questioni sociali, e far parte di un'elite disinvolta e ricchissima.

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