"Hanno convinto papà a uccidersi"

Anche la figlia del giudice D'Amico accusa una delle "stanze della morte" svizzere

"Hanno convinto papà a uccidersi"

Pietro D'Amico era un uomo perbene. E un giudice irreprensibile. Che amava la toga. Quando era procuratore generale di Catanzaro, cercarono di coinvolgerlo nella controversa inchiesta «Why not» per una improbabile «fuga di notizie»: ombre che D'Amico fugò, dimostrando la sua assoluta correttezza.

Forse non fu la causa scatenante, ma certo quelle illazioni non contribuirono ad alleviare la depressione che, nel tempo, avrebbe stretto il magistrato in una morsa sempre più intollerabile. Tanto da spingerlo a ricorrere al suicidio assistito in una clinica svizzera; una scelta tragica resa ancora più drammatica da circostanze oscure, mai completamente chiarite. Ne è persuasa anche Francesca, figlia del giudice, che da 2013 (anno della morte del padre) ha intrapreso una coraggiosa battaglia contro il business dell'eutanasia, particolarmente fiorente in alcuni centri della Svizzera dove ogni anno 700 «pazienti» (gli italiani sono circa il 40%) scelgono di andare a morire terra portando alle labbra un bicchiere pieno di veleno.

Ma la storia del giudice D'Amico è diversa da tutte le altre: «Mio padre - ha sempre raccontato Francesca in ogni sede, compresa quella giudiziaria - non era un malato incurabile o terminale. Era depresso, è vero. Ma dalla depressione si può guarire. Papà doveva quindi essere accompagnato verso una cura, non verso il suicidio assistito. Chi gli ha permesso di morire senza convincerlo a trovare una via d'uscita alternativa, meriterebbe di andare in galera».

La denuncia di Francesca non è generica, ma individua responsabilità precise. Persone, fatti e circostanze che qualche mese fa il Giornale ha verificato in Svizzera punto per punto e che confermano quanto dichiarato dalla figlia del giudice in una intervista del luglio 2013 rilasciata al Fatto Quotidiano. Si comincia con la telefonata-choc ricevuta da Francesca alle 18,25 del giorno 11 aprile 2013: «Pronto, parlo con Francesca D'Amico? Sono la dottoressa Erika Preisig, le comunico che suo padre è venuto varie volte da me per richiedere il suicidio assistito. Oggi è morto, non poteva più vivere, stava troppo male, voleva andare». Francesca si sente sprofondare: «Forse ha sbagliato persona. Papà due giorni prima aveva parlato al telefono con il mio fidanzato e nulla lasciava presagire un suicidio». Ma la Preisig è implacabile: «Capisco sia difficile da accettare, ma questa è la realtà, le invierò il certificato di morte, e per volontà di Pietro il suo corpo verrà cremato il 22 aprile. Buonasera».

Ma chi è questa Erika Preisig? Fondatrice di una delle prime «stanze della morte» svizzere, dove il suicidio assistito è una pratica legale benché le norme che la disciplinano non siano del tutto chiare: il sospetto è che, in cambio di 10 mila euro (non rimborsabili in caso di ripensamento, ndr), le tre cliniche elvetiche specializzate nella «dolce fine» accettino aspiranti suicidi di ogni tipo: compresi quelli non «irreversibilmente incurabili», come formalmente previsto dai protocolli sanitari svizzeri.

Sospetti che diventano mezze certezze alla luce del recente caso dell'ex politico Lucio Magri, anche lui malato di depressione ma non per questo rifiutato da una delle strutture svizzere. Stesso discorso per la vicenda dell'ingegnere comasco venuta alla luce appena due giorni fa, per la quale la Procura lariana ha deciso di aprire un'inchiesta con l'ipotesi di istigazione al suicidio.

Quella stessa «istigazione» che potrebbe essersi celata anche dietro l'addio al mondo del dottor D'Amico.

La conclusione di Francesca è all'insegna dell'amore verso un padre che non c'è più: «Papà stava vivendo solo un momento psicologicamente difficile. Andava aiutato a vivere, non a morire».

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