Presidente Tommaso Foti, perché Giorgia Meloni ha deciso di avviare il lavoro sulle riforme costituzionali convocando le opposizioni?
«Meloni ha scelto un metodo rispettoso del Parlamento e delle opposizioni. Un tentativo che rappresenta una apertura all'ascolto, ha chiesto di partecipare a questa riforma superando le contrapposizioni molto spesso ideologiche del passato. Si tenta di fare le riforme istituzionali dal 1983 con la commissione Bozzi. Ci sono state due riforme che non hanno passato il vaglio del referendum confermativo, la devoluzione con il governo Berlusconi e il bicameralismo paritario del governo Renzi. L'unica riforma è stata quella del Titolo V con 3 voti di scarto, certo non una delle migliori riforme istituzionali».
Il Pd sostiene che le riforme non siano una priorità.
«Oggi negare come ha fatto la segretaria del Pd che le riforme siano una delle priorità equivale a negare parte della storia del Pd, significa essere furori dalla realtà. Non più tardi del 2013 Letta evocò le riforme costituzionali, nel 2014 fu Renzi alla guida del Pd a presentare una riforma costituzionale. Il presidente Napolitano convocò il comitato dei saggi per occuparsi del tema. Ci sono tentativi da anni, ora è giunto il momento di farle. La cosa peggiore sarebbe trovarsi di fronte a qualcuno che cerca scuse per eluderle, anche perché come si fa a dire, come ha fatto Elly Schlein, che le riforme costituzionali non sono una priorità e subito dopo avanzare la riforma della legge elettorale che è solo la conclusione di un percorso? Non capiamo se si tratti di sconsiderata baldanza o gioventù bruciata».
Giorgia Meloni ha detto che sperava di trovare le opposizioni più coese.
«Il fatto che abbiano posizioni diverse non è che lo specchio del modo in cui si sono presentate alle elezioni, con tre schieramenti diversi. Diciamo che il campo largo se non trova un accordo nemmeno sull'emergenza costituzionale, evidentemente rischia di rivelarsi un campetto stretto».
Il centrodestra si è davvero spostato dal presidenzialismo al premierato?
«Il presidenzialismo può trovare una sua declinazione nel premierato, l'elezione diretta premier è una forma di presidenzialismo non ortodossa. Garantirebbe stabilità ai nostri governi, 68 con una durata media di 14 mesi, una vera giostra che ci squalifica a livello internazionale. La stabilità è la più grossa delle riforme economiche che si può fare. E poi c'è il secondo pilastro che è il rispetto del voto degli elettori visto che spesso con il sistema attuale il governo ha assunto forme distanti dall'espressione della volontà popolare».
Quanto il centrodestra è disposto ad aspettare le opposizioni sulle riforme?
«Il confronto è la strada maestra, ma bisogna essere in due. Se uno nega in partenza una parte della propria storia politica è evidente che vuole far imboccare un viottolo che non porta da nessuna parte. Gli elettori non ci hanno dato il mandato per finire su un vicolo cieco. Ma non penso che un atteggiamento di questo tipo sarebbe una carta vincente per l'opposizione».
Fare le riforme da soli, però, solitamente non porta fortuna.
«È vero ma se andiamo a ricostruire la storia degli ultimi due referendum ci rendiamo conto che si guardò alla politica più che al merito del quesito. Renzi lo aveva trasformato in un referendum sulla sua persona e certo non ha giovato. Non bisogna aver paura degli elettori. Se si teme che gli elettori le boccino allora meglio non fare le riforme. Insomma se qualcuno si vuole sottrarre penso sia giusto che la maggioranza vada avanti e se non ci saranno i numeri in Parlamento che siano gli elettori a pronunciarsi».
La sua è una previsione o un auspicio?
«No, nessun auspicio.
L'auspicio è che nessuno scelga l'Aventino o faccia opposizione pregiudiziale. Non è che se il rimedio lo propone il centrodestra allora bisogna sfilarsi. Di certo bisogna superare questo atteggiamento di una parte dell'opposizione che pretende, a prescindere, di avere in tasca la verità».
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