Sembra passato un secolo da quando Vladimir Putin, il fautore spregiudicato dell'aggressione a uno stato democratico come quello ucraino, veniva descritto alternativamente come pazzo, malato, zoppicante, delirante, ipocondriaco, isolato. Molti di questi aggettivi venivano rilanciati dalla stampa anglosassone e amplificati in Italia, citando all'unisono non ben precisate fonti d'intelligence.
In queste ultime ore ci siamo resi conto che forse ci vorrebbe un po' di prudenza nella narrazione e nel descrivere un uomo che, col passo inqualificabile della guerra, ha lucidamente giocato una carta che da una parte lo brucerà come interlocutore dell'Occidente per sempre, dall'altra gli consegna l'agenda internazionale per molti mesi ancora. Proprio in virtù della sua imprevedibilità, Putin costringe tutti a rincorrerlo, paradossalmente anche sul piano della comunicazione.
Si è fatto un baffo della modernità e della tecnologia, «spegnendo» brutalmente i social per imporre una narrazione tutta sua che, pur nel delirio di un uomo che impone una guerra ottocentesca, riesce con la sua spregiudicatezza a condizionare l'opinione pubblica russa e, ancora, a orientarla. Cosi facendo ha dettato i tempi della sua personale mitologia. Iniziando con il discorso del 24 febbraio. L'entrata in guerra. Uno stillicidio coerente di metafore storiche degne del teorico della fine del secolo breve Eric Hobsbawm: denazificazione, inconsistenza e complicità dell'Ue. In quella sede al dittatore premeva identificare culturalmente una guerra per giustificare un passo cosi aggressivo verso i fratelli ucraini, consapevole che l'opinione pubblica interna era disorientata da una scelta politicamente suicida. Mettere i paletti usando la Storia come legittimazione era tra gli obiettivi del discorso.
Fece seguito quello dello stadio del 18 marzo, frutto di attacchi e analisi spesso un po' azzardate, dove Putin rispondeva plasticamente all'ipotesi di essere isolato. In questo secondo passaggio, dalla lettura aristotelica della storia si passava a un codice più metafisico ed espressamente biblico. Il sacrificio individuale e collettivo del popolo russo per una giusta causa. Un appello diretto alla Russia profonda e intima, una galvanizzazione dell'identità mistico-religiosa. L'ultimo durante il bilaterale col leader bielorusso Lukashenko, tenuto sapientemente al cosmodromo di Vostochny nella Giornata mondiale del volo umano nello Spazio. Un rimando all'epoca di Yuri Garagarin, simbolo degli anni d'oro (politici e tecnologici) della Russia; gli anni dei primati nella conquista dello spazio (tradotto: l'ignoto verso cui conduce una guerra). In pochissimi hanno notato che lo Zar ha usato per la prima volta il termine «guerra» (Blitzkrieg) per definire l'offensiva e le sanzioni occidentali.
E, rivolto a un'opinione pubblica che comincia a essere sconcertata da tanta violenza, da immagini di stragi e di città distrutte, proprio lui che negava la guerra ha parlato di «tragedia inevitabile». Un'immersione nella Realpolitik, forse architettata per celebrare con codici «imperiali» la probabile conquista del Donbass.
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