Gian Maria De Francesco
Roma «Renzi sa cosa vuol dire essere minoranza. Io sicuramente sarò meno polemico di quando Renzi era in minoranza, se dovessi essere in minoranza. Ma sarò in maggioranza e penso di poter contare sull'aiuto di Renzi». Andrea Orlando già ieri mattina non si nascondeva quello che sarebbe stato l'esito delle primarie promettendo sostanzialmente lealtà al «vecchio» nuovo segretario del Pd del quale è stato fedele ministro della Giustizia per tutti i mille giorni di governo dell'ex sindaco di Firenze.
E nella campagna elettorale non troppo rumorosa delle primarie Orlando, che partiva in svantaggio, ha evitato accuratamente di alzare i toni: un po' per carattere e un po' perché non avrebbe potuto rinnegare interamente un percorso che lo ha visto se non protagonista quanto meno testimone. Ha cercato un colpo di coda alla fine. Prima polemizzando con il ministro degli Esteri Alfano che ha appoggiato il pm catanese Zuccaro, che ha ipotizzato il diretto coinvolgimento delle ong nel traffico dei migranti. E poi cercando il voto degli insegnanti «arrabbiati» per la riforma della Buona Scuola che pure lui concorse ad approvare. Si tratta di interventi in corner, quasi a voler giustificare la propria presenza.
Il vero dato politico della sconfitta annunciata di Orlando è il progressivo disfacimento degli antichi numi tutelari del centrosinistra, corsi immediatamente ad appoggiarlo. Dall'ex capo dello Stato, Giorgio Napolitano, al contendente di Renzi nella precedente tornata, il dalemiano di tendenza kafkiana Gianni Cuperlo. Con loro finisce (o sarebbe meglio dire resta) sotto la macerie anche l'ulivista Romano Prodi che la scorsa settimana accolse Orlando nella sua magione bolognese servendogli gli immancabili tortelli.
E proprio il Professore ha posto la pietra tombale sulle velleità orlandiane. Ieri interpellato dopo il voto al gazebo sulla possibile alleanza con Berlusconi ha detto: «Sono stato rottamato e non devo prendere queste decisioni». Non le prenderà nemmeno Andrea.
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