Sono scese in piazza per il terzo giorno consecutivo a Kabul, chiedendo «lavoro, istruzione e libertà». Hanno incassato nuove frustate ma si dimostrano l'opposizione più ostinata e coraggiosa al nuovo regime talebano. D'altra parte ormai è evidente ed è solo una conferma di tutte le più fosche previsioni saranno e sono già loro, le donne, a pagare il prezzo più alto del nuovo corso nel secondo Emirato islamico dell'Afghanistan. L'ultima conferma è arrivata ieri. Dopo aver annunciato la segregazione di genere all'università la separazione, cioè, tra maschi e femmine in aula dopo aver introdotto il nuovo codice di abbigliamento negli atenei e imposto che le donne coprano il loro corpo con l'abaya, un camice lungo fino ai piedi, e coprano il loro viso con il niqab, che lascia scoperti solo gli occhi, i talebani hanno aggiunto un altro mattone al muro dell'invisibilità alla quale vogliono relegare le afghane, totalmente escluse dal nuovo governo. D'ora in poi alle donne sarà vietato anche lo sport, definito inappropriato e non necessario, incluso il cricket femminile. La giustificazione è sempre la stessa e rivela l'ossessione degli studenti del Corano per quei visi di donna che gli integralisti islamici pretendono spariscano dalla vita pubblica del Paese, pretendendo di conseguenza che le afghane cancellino la loro stessa identità. «Nel cricket potrebbero affrontare una situazione in cui il loro volto e il loro corpo non saranno coperti. L'Islam non permette che le donne siano viste così - ha spiegato all'emittente australiana Sbs, il vice capo della commissione culturale Ahmadullah Wasiq - È l'era dei media - ha aggiunto Wasiq, consapevole del rischio che le atlete finiscano sui giornali e in tv - Ci saranno foto e video, e poi la gente li guarderà. L'Islam e l'Emirato non consentono alle donne di giocare a cricket o praticare uno sport in cui vengono esposte».
Non è un caso che Zakia Khudadadi, l'atleta paralimpica di taekwondo la cui partecipazione ai Giochi era stata in un primo momento impedita dalla presa di Kabul, si sia messa in salvo grazie all'Australia. E non è un caso che ad abbandonare l'Afghanistan ci sia stata l'intera squadra di calcio femminile di Herat, città in cui i nostri militari avevano la loro base e dove si sono fatti importanti passi per l'emancipazione femminile, tanto da trasformarla in uno dei principali teatri delle proteste anti-talebane di questi giorni. Le calciatrici hanno trovato rifugio in Italia e continueranno a giocare.
Chi resta in Afghanistan, invece, è in prima linea. «I talebani mi cercano. Vivo nascosto. Non ho notizie delle mie allieve. Siamo ripiombati nel buio totale», dice l'allenatore della squadra di futsal (calcio a 5) femminile della provincia di Herat.
Poi ci sono le donne scese in strada per chiedere «libertà», frustate ieri a Kabul, prima che l'Emirato annunciasse che le manifestazioni dovranno essere autorizzate dal ministero dell'Interno. Servirà conoscere in anticipo scopo, luogo e ora. Infine i giornalisti afghani, picchiati selvaggiamente. Tra loro due reporter del quotidiano Etilaatroz, rilasciati con i segni di frusta sulla schiena.
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