Q uando chiedi ad Antonio Tajani, indicato da Berlusconi come presidente in pectore del prossimo governo, chi sia stato il suo grande maestro di vita, lui non ha dubbi: «Di maestri ne ho avuti tanti, ma il numero uno si è dimostrato Indro Montanelli, il mio direttore». Per quale motivo? «È stato il più grande giornalista del Novecento: mi ha insegnato a parlare e scrivere con semplicità e chiarezza per far comprendere a tutti anche le cose più difficili».
Con il presidente del Parlamento Europeo ho avuto la fortuna di condividere la stessa avventura sotto la guida del Grande Vecchio di Fucecchio: Antonio era il capo della redazione romana del Giornale, io curavo a Milano le pagine economiche del quotidiano in cui ancora oggi scrivo. Una grande avventura, la nostra: tante battaglie, moltissime speranze, tanto entusiasmo che in parte sono finiti nel nulla, così come si sono bruciati gli anni dei sogni giovanili. Già allora, Tajani era stato bravo a mettere a frutto la lezione che Indro ci aveva dato mettendosi al servizio dei lettori e degli italiani, qualche volta «turandosi il naso». Spesso e volentieri, Cilindro si considerava «straniero in patria», ma in realtà era davvero doc, il più italiano di tutti. Ricorda Tajani: «Era un uomo coraggioso, difensore a caro prezzo fu ferito dalle Brigate Rosse - della libertà». Per entrambi, Antonio ed io, Montanelli è stato il direttore che tutti volevamo, il padre spirituale di tante generazioni di giornalisti. Proprio lui che, in realtà, non ha mai voluto avere figli perché - diceva, scherzando - «non si sa mai chi ti metti in casa», anche se, poi, a proposito del Giornale, mi confessò che il nostro quotidiano «è stato un figlio che ho visto nascere». Il vero direttore, ci ammoniva sempre, ha il difficile compito di guidare la redazione senza, però, far vedere che lui ha i galloni: anzi, con la propria esperienza, avrebbe dovuto mettersi al servizio anche dei colleghi giornalisti. Per quanto possibile, Tajani ha cercato di seguire l'esempio di Cilindro pure come leader politico, anche se il Vecchio ha voluto restare sempre restare fuori dal Palazzo. C'è un ricordo personale, per quanto piccolo, che suffraga la mia tesi: quando, certe volte, andavo in trasferta a Roma per seguire l'assemblea della Banca d'Italia o altro, Antonio, per poter scrivere l'articolo, mi dava sempre ospitalità nella sua redazione che era, allora, in Piazza di Pietra - e, poi, voleva per forza accompagnarmi con la sua auto in albergo: dopo, non mi è mai più capitato, con nessun altro collega. Oltre all'amore per l'Italia, Indro aveva una grande passione per l'Europa intera che aveva girato in lungo e in largo da inviato speciale (e non solo: aveva anche insegnato in Estonia dopo la sospensione da giornalista del Minculpop). Anche sotto il profilo europeo, anche sotto questo profilo, Tajani è stato un ottimo allievo tanto da finire, addirittura, sullo scranno più alto di Strasburgo.
Quando, all'inizio del 2018, gli avevo chiesto una sua previsione sul futuro del Vecchio Continente, Antonio era stato molto sintetico: «Si trova di fronte ad un bivio: o compie un balzo in avanti o rischia di autocondannarsi». È lo stesso dilemma che dovrà affrontare se salirà a Palazzo Chigi.
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