Siamo forse a un passo dalla prima sostanziale rottura da parte dell'amministrazione Biden di uno dei capisaldi della politica estera del suo predecessore. Il nuovo presidente democratico apre a concessioni all'Iran pur di far rientrare gli Stati Uniti al tavolo negoziale con Europa, Russia e Cina (in sigla Jcpoa) che aveva prodotto gli accordi sul programma nucleare iraniano del 2015 poi stracciati da Trump. L'ex presidente repubblicano aveva poi adottato la strategia di massima pressione sull'Iran, composta da dure sanzioni economiche, da azioni militari mirate culminate nell'assassinio dello stratega iraniano in Medio Oriente generale Suleimani e dalla messa a punto di una solida alleanza anti-iraniana con Israele, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Ora Biden, come conferma il suo consigliere per la Sicurezza Nazionale Jake Sullivan, intende ristabilire anche nei confronti dell'Iran islamico nemico giurato del «Satana americano» - il primato della diplomazia.
Peccato che l'annunciato ritorno Usa ai negoziati rischi di trasmettere a Teheran un messaggio di debolezza: non solo Sullivan lega la partecipazione ai colloqui alla liberazione dei cittadini Usa detenuti illegalmente in Iran, ma il nuovo segretario di Stato Antony Blinken e l'inviato speciale per l'Iran, Rob Malley, erano figure chiave dell'accordo firmato da Obama con gli ayatollah, e il loro ritorno al tavolo nonostante le obiezioni (per ora pacate) degli alleati regionali di Washington sa molto di passo indietro. Se si aggiunge che sostenitori del Jcpoa come Ali Vaez, direttore del Progetto Iran presso il Gruppo di crisi internazionale fin qui diretto da Malley, sostengono che «in quanto parte che è venuta meno ai propri impegni e ha portato l'accordo all'attuale triste condizione, ricade sugli Stati Uniti l'onere di compiere passi (leggi la revoca delle sanzioni imposte da Trump, nda) che dimostrino all'Iran di essere un partner negoziale affidabile», resta davvero poco da aggiungere: il clima ideologico di autoflagellazione dell'amministrazione Biden è lampante.
Assistiamo ora a una situazione paradossale. Il leader della diplomazia iraniana Mohamad Javad Zarif, rappresentante di un Paese che ancora in questi giorni era dietro gli attacchi con razzi contro posizioni americane in Iraq, si trova addirittura nelle condizioni di alzare la voce con la Casa Bianca e di rilanciare con toni arroganti. «Biden non può venirci a dire di voler tornare a negoziare con noi mantenendo allo stesso tempo le sanzioni contro il nostro Paese». Ieri Zarif, insieme con il responsabile del programma atomico iraniano Ali Akbar Salehi, ha ricevuto a Teheran l'inviato dell'Agenzia atomica dell'Onu, Rafael Grossi, il quale era ripartito assicurando che le discussioni avute con gli iraniani erano state «proficue». In realtà questi colloqui si erano tenuti in un contesto tutt'altro che disteso: proprio ieri, infatti, Teheran aveva fissato la scadenza del suo ultimatum per la revoca delle sanzioni americane contro la Repubblica islamica.
In mancanza di questo passo indietro, l'Iran minacciava un passo molto grave: l'immediata sospensione del protocollo addizionale siglato con l'Aiea che prevede tra l'altro verifiche senza preavviso degli inviati Onu in qualsiasi impianto nucleare iraniano.
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