La diatriba tra il premier Giuseppe Conte e il suo predecessore Matteo Renzi ha un fondamento non solo politico, ma soprattutto economico. E sta nei numeri del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) che, a breve, sarà presentato a Bruxelles. Da mesi è noto l'intento del capo del governo e del ministro dell'Economia Roberto Gualtieri: usare la quota di prestiti di Next Generation Eu (127 miliardi) per sostituire il debito esistente e prossimo venturo per godere di minori tassi di interesse su quelli che invece sarebbero applicati ai nostri Btp.
Il leader di Italia viva, invece, vuole moltiplicare i progetti per piantare proprie bandierine politiche, ma anche perché (e questo va detto) lo spirito del Recovery fund è il finanziamento di nuovi investimenti e non la sostituzione di quelli esistenti, magari già cofinanziati dall'Unione europea come l'Alta velocità. Il problema è che nell'ultima bozza circolata del Pnrr il ministro Gualtieri con i suoi tecnici intenderebbe destinare alle nuove iniziative solo 40 miliardi dei 127 di prestiti (loans) e i restanti 82 miliardi di sovvenzioni (grants).
Il motivo è presto spiegato. L'Italia dovrebbe aver chiuso il 2020 con un rapporto debito/Pil del 158% e con un deficit/Pil al 10,6%, ovviamente se gli ultimi lockdown non hanno prodotto ulteriori sconquassi. Dall'anno prossimo il nostro Paese dovrà mettere i conti pubblici su un sentiero di sostenibilità riportando i parametri allo status pre-pandemia entro la fine del decennio. Tanto più che nel 2022 dovrebbero ritornare in vigore i diktat dei Trattati Ue su deficit/Pil entro il 3% e avanzo di bilancio costante.
La grandeur renziana rischia di essere troppo costosa e di costringere l'Italia, una volta terminato il piano di acquisti emergenziali della Bce, a ricorrere al Mes vero e proprio, non quello in versione soft che potrebbe garantire al nostro Paese 37 miliardi aggiuntivi per le spese sanitarie. Insomma, l'Italia finirebbe commissariata da una Troika comunitaria se i conti finissero fuori controllo e c'è da dire che i Paesi frugali aspettano Roma al varco. Anzi, Gualtieri avrebbe anche cercato di guadagnare tempo chiedendo a Bruxelles se i prestiti di Next generation Eu potessero scomputarsi dal conto del deficit pubblico. Un esercizio superfluo: la risposta è stata negativa. Il Recovery fund nella parte loans equivale a disavanzo di bilancio e, dunque, in quest'ottica è meglio utilizzarlo per finanziare a un minore tasso di interesse progetti già in cantiere come l'Alta velocità e la manutenzione delle reti autostradali, ad esempio.
Il conto è presto fatto: 127 miliardi di euro equivalgono all'incirca al 7% del Pil italiano. Impegnarli interamente significherebbe intraprendere una direzione contraria a quella che l'Europa auspica. O, se si volesse effettivamente imboccarla, bisognerebbe garantire coperture adeguate a quello sbilancio, cioè tradurre in realtà le ipotesi di patrimoniale finora circolate, inclusa un'applicazione più estesa dell'Imu o la famigerata riforma del catasto.
Non si tratta di terrorismo psicologico ma, purtroppo, del prezzo che l'Europa chiede di pagare per il sostegno ai Paesi indisciplinati dal punto di vista finanziario. La «guerra», vera o finta che sia, tra Renzi e Conte non ha, però, lambito un campo di battaglia nel quale sarebbe valsa la pena scontrarsi.
Il Pnrr italiano, sempre secondo le ultime indiscrezioni, prevedrebbe 55 miliardi di euro destinati a bonus vari, molti dei quali ricompresi nell'ultima legge di Bilancio e la cui conferma pluriennale è appunto demandata alle risorse di Next generation Eu. Considerata l'entità, una sforbiciata a ciò che è inessenziale potrebbe essere un buon viatico per investire veramente nel futuro del Paese. Non solo con le parole, ma con i fatti.
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