Poteva essere il giorno in cui il sindacato-partito dei magistrati italiani giudicava anche se stesso, processando insieme al pm romano Luca Palamara la degenerazione di un sistema di potere, l'utilizzo a fine di carriera e di affari delle garanzie offerte dalla Costituzione. Invece tutto viene liquidato come un processino un po' sovietico, con la decisione presa prima ancora di cominciare, l'accusato come imbavagliato, la sentenza che arriva prima ancora di pranzo. Il Comitato direttivo centrale dell'Anm l'Associazione nazionale magistrati, riunito all'ultimo piano del Palazzaccio romano della Cassazione, espelle Palamara per «reiterate violazioni del codice etico». Da oggi Palamara, che già dal luglio scorso era stato sospeso dal lavoro e dallo stipendio su iniziativa del Consiglio superiore della magistratura, non fa neanche più parte dell'Anm di cui era presidente. È insomma ufficialmente un drop out, un paria, cacciato dal mondo di cui per un decennio e fino allo schianto di un anno fa è stato uno dei grandi protagonisti: riverito, cercato temuto, applaudito. E oggi indicato come il simbolo di una degenerazione che di certo non comincia con lui, e chissà se con lui finirà.
Palamara si presenta davanti alla sede della Cassazione armato di appunti e voglia di farsi valere. Sa che il collegio dei probiviri ha proposto la sua cacciata, e che gli spazi per una decisione diversa sono quasi inesistenti. Ma vuole fare sentire le sue ragioni, spiegare come i comportamenti - oggettivamente indifendbili - di cui si è reso protagonista, trattando sottobanco con le correnti e con il potere politico le nomine cruciali della magistratura italiana vadano letti in uno scenario assai più ampio, di cui non può essere considerato l'unico colpevole. Ma il comitato direttivo rifiuta di ascoltarlo. In poco più di due ore, ecco la sentenza. Palamara è fuori.
Ma perché Palamara è stato cacciato dall'Anm? Quale, in specifico, dei suoi comportamenti, è stato considerato dal direttivo incompatibile con i suoi doveri etici? Il tema è cruciale. E se si guarda all'unico documento che entra nel merito della questione, ovvero la delibera del collegio dei probiviri dell'Anm del 2 marzo scorso, che ieri viene fatto proprio dal direttivo, si legge che «le condotte del dottor Palamara si pongono inusitatamente, quanto indegnamente, fuori dal codice etico dell'Anm». Ma si parla unicamente dell'episodio più clamoroso del «sistema Palamara», ovvero la nomina del nuovo procuratore di Roma. E si usa un avverbio, «inusitatamente», per dire che cose simili non sono mai successe. Magari, verrebbe da dire. I probiviri non fanno cenno a tutto il resto, al gigantesco mercato di poltrone che intorno a Palamara ruotava e che coinvolgeva tutte le correnti. E nemmeno viene menzionato l'unico episodio per cui alla fine la Procura di Perugia ha deciso di portare Palamara a processo, ovvero i favori ricevuti dall'imprenditore Fabrizio Centofanti.
Così, alla fine, Palamara viene cacciato solo per l'unica impresa, la nomina di Roma, che la sua cricca non è riuscita a portare a termine. L'autodifesa che si era preparato a pronunciare era assai più ampia, ma il direttivo rifiuta di ascoltarla. «Oggi - dice ai cronisti uscendo dal Palazzaccio - sono venuto qui perché la considero la mia casa, per un dovere di chiarimento, ma mi è stato negato il diritto di parlare e di potermi difendere, nemmeno con l'Inquisizione accadeva. Il diritto di parola deve essere riconosciuto a tutti, quanto accaduto stride con la storia dell'Anm».
La sua storia nel sindacato delle toghe finisce oggi, ma il caso Palamara va avanti. In attesa che il ministro della Giustizia metta finalmente mano alla riforma del Consiglio superiore della magistratura: che, assicura ieri Alfonso Bonafede, «sarà una vera rivoluzione».
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