Fare informazione comporta l'uso descrittivo del linguaggio e dei termini politici che vengono impiegati. Ad esempio, definire Francisco Franco «fascista» non fa capire né chi è stato il Generalissimo né cos'è stato il fascismo. Ci si trova, direbbero i filosofi empiristi, dinanzi a un giudizio di valore che viene contrabbandato come giudizio di fatto. Quest'ultimo si ha quando di un fenomeno o di un leader politico si racconta la storia, si illustra la natura, si individua la funzione. Tocca poi al lettore, in base a tali dati di fatto, formulare una sua valutazione positiva o negativa.
Sono considerazioni che vengono in mente, pensando alla gran confusione che regna ormai tra parole come demagogia, democrazia diretta, populista, popolare etc. Si ha l'impressione, soprattutto per quanto riguarda il termine populismo, che esso non serva come bussola per orientarsi nei conflitti del nostro tempo ma come arma contundente, come insulto. «Lei è un populista! Populista sarà lei!». Da qualche tempo, proprio per una sorta di difesa preventiva, leader e giornalisti distinguono «populista» da «popolare» come se si trattasse di due pianeti diversi e non comunicanti. In realtà, un leader populista non può non essere popolare (ad esempio Peron), anche se un leader popolare può non essere populista (esempio Churchill). La differenza è innegabile ma è quella che non esclude casi intermedi (ad esempio bello/brutto che ammette anche il semibello) non quella tra contrari che si definiscono per esclusione-negazione reciproca (esempio incinta/non incinta). Ad accomunare il populista e il popolare è, ovviamente, il riferimento al principio della sovranità popolare a fondamento della costituzione politica. Inoltre, entrambi presuppongono un leader carismatico che chiede la fiducia del popolo - ovvero carta bianca per le riforme che intende realizzare - quando una grave minaccia incombe sulla comunità politica una guerra o una devastante crisi economica. Infine, sia il «popolare» che il «populista» si rivolgono direttamente alle masse (vedi I discorsi al caminetto di F.D. Roosevelt ), ciò che comporta la «personalizzazione della politica» e la noncuranza (relativa) per le mediazioni istituzionali. Le somiglianze, però, finiscono qui. Innanzitutto, il leader popolare non vede nel regime politico un tumore da estirpare ma un edificio da riparare, laddove il leader populista fa dell'odiato establishment l'espressione del malgoverno, della corruzione, del cinismo politico. Il primo è un «riformista», il secondo un «rivoluzionario», almeno nel rifiuto di venire a patti con l'esistente.
Ne deriva che il leader popolare non delegittima l'avversario mentre il leader populista non vuole aver nulla a che fare con chi «ha rovinato il paese»: per lui, dire che i valori politici stanno sullo stesso piano è come dire che il conflitto per il potere è una competizione sportiva non una guerra mortale che ha la salvezza come posta in gioco. Forse, in certi momenti, il populismo può essere una risorsa per una comunità politica che voglia voltar pagina: certo è un fenomeno preoccupante per gli amici della «società aperta».
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.