Il tema dell'eco-ansia è tornato in voga nel dibattito pubblico italiano dopo il messaggio che una giovane attivista, Giorgia Vasaperna, ha voluto lanciare durante un incontro con il ministro dell'Ambiente, Gilberto Pichetto Fratin. Ma di che cosa parliamo esattamente? E come si sta affrontando la questione in generale? Maria Frega, sociologa e divulgatrice scientifica, ci racconta l'evoluzione di questo fenomeno.
Che cos'è l'eco-ansia?
«Questo termine è apparso per la prima volta nel 2011, quando il filosofo australiano Glenn Albrecht affermò l'esistenza di un'ansia legata alla paura per i cambiamenti climatici. I mass media hanno cominciato poi a rilanciare alcuni studi in tal senso dopo circa dieci anni».
È mai stata dimostrata scientificamente?
«Non è tuttora riconosciuta come una condizione medico-psicologica. A livello ufficiale ci dovrebbe essere una revisione del manuale diagnostico di salute mentale che includa anche l'ansia climatica: questo non è stato ancora sistematizzato. Tuttavia l'Oms ha suggerito di cominciare a documentarla. Occorrerebbe però applicare dei protocolli ufficiali che, al momento, sono assenti».
Esiste quindi un'angoscia personale basata soltanto sul futuro della Terra?
«È chiaro che è molto difficile sostenere che il problema di una persona possa essere esclusivamente quello dell'angoscia ambientale: c'è sempre una serie di concause, che magari riguardano lo stress sul lavoro o problemi in famiglia. Non c'è dunque una terapia specifica. Comunque, allo stesso tempo, occorre non trascurare questo fenomeno».
Come si è manifestato tra i ragazzi?
«Con gli anni è stato caratterizzato da tutto un sottobosco di discussioni avvenute sui social, in particolare su Instagram. Le generazioni più giovani, più sensibili ai temi ambientali, hanno cominciato ad autodiagnosticarsi questa ansia legata a un futuro che non sarà più come quello prospettato».
Si può considerare normale questa «deriva» da bolla social?
«Sono aumentate le notizie riguardanti queste tematiche. Il discorso è che tutti i piani per combatterle si sono ridotti in auto-aiuti social. Qua sono usciti degli esperti che si sono dichiarati professionisti specializzati in sindromi ansiose legate al clima, avendo intercettato queste esigenze particolari».
Ma una cura «tecnologica» non potrebbe risultare, paradossalmente, più dannosa della malattia?
«Se ci sono decine di migliaia di persone che affrontano questo argomento sui social, io credo che vadano ascoltate. Anche perché non è semplice denunciare pubblicamente un problema di questo tipo. È evidente, comunque, che un'autodiagnosi del genere porti anche a strategie che non sono efficaci. I social non possono rivelarsi una soluzione: al massimo possono essere una toppa. Bisognerebbe passare dal fai da te agli strumenti scientifici ufficiali».
La scena di Giorgia non rischia di essere controproducente e di alimentare negativamente un messaggio delicato?
«Non penso che il suo pianto davanti al ministro fosse premeditato: anzi, io personalmente registro una sottovalutazione dell'eco-ansia.
Ma, proprio per questo motivo, penso che andrebbe approfondito con l'aiuto dell'autorevolezza della scienza. Comprendo il disorientamento di una generazione che non ha un interlocutore, però bisognerebbe selezionare le persone competenti che sanno parlare adeguatamente di questi temi, che sono estremamente complessi».
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