Ma siamo proprio sicuri che sia stata fatta giustizia con la condanna a 16 anni di carcere a carico di Alberto Stasi per l'omicidio di Chiara Poggi? E se invece fosse stata fatta solo una parziale vendetta? O, peggio ancora, fosse stata trovata una soluzione apparentemente salomonica ma nella realtà fondata sulla necessità di trovare una formula di compromesso per assicurare un minimo di giustizia, garantire un minimo di vendetta e, soprattutto, non sconfessare l'operato degli inquirenti e dei giudici dei precedenti gradi di giudizio? Non ha torto chi dice che si è fatta giustizia visto che la sentenza di condanna definitiva è giunta dopo cinque gradi di giudizio in cui l'imputato ha goduto di tutte le garanzie processuali. Al tempo stesso ha sicuramente ragione chi rileva che 8 anni di processi continui in cui le condanne sono giunte dopo due prime assoluzioni hanno fatalmente introdotto nel procedimento un fattore vendicativo che non dovrebbe far parte dell'ordinamento giuridico. È difficile, infine, contestare chi rileva che 16 anni di carcere sono pochi per chi ha commesso un omicidio per il quale è previsto l'ergastolo e sono troppi per chi non ha compiuto un assassinio. E che una sentenza come quella a carico di Stasi, che di fatto lo definisce un po' assassino ed un po' innocente, sembra fatta apposta per pensare a un giudizio condizionato da un eccesso di solidarietà corporativa e dalle pressioni mediatiche per la punizione del presunto colpevole. Insomma, tutti hanno una parte di ragione. E, paradossalmente, è proprio questo aspetto a bollare il processo per l'omicidio di Chiara Poggi come un classico caso di malfunzionamento del sistema giudiziario nazionale: cinque processi in otto anni e al termine una sentenza contraddittoria. Tutto questo si sarebbe potuto evitare se solo, come argomentava Luca Fazzo sul Giornale di ieri, la legge Pecorella del 2006, quella che stabiliva l'inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, non fosse stata di fatto abrogata sotto la spinta delle lobby giustizialiste della politica e della magistratura. La loro motivazione di fondo era che impedire ai pm di proporre appello contro le sentenze di assoluzione favoriva Silvio Berlusconi.
Il caso del processo di Garlasco dimostra che si trattava di una misura sacrosanta tesa a ridurre la durata dei processi e a evitare il calvario del processo infinito a chi veniva riconosciuto innocente in uno dei due gradi di giudizio. Rilanciare oggi quella legge sarebbe un atto di civiltà e di opportunità giuridica. In fondo l'antica regola stabilisce «in dubio pro reo» non «in dubio pro pm».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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