Letta & C. lavorano alla "non vittoria" del centrodestra. E Bersani invoca l'accozzaglia con i 5s

"Sarà il sole o sarà la luna, ma il risultato di queste elezioni sarà chiaro", dice Enrico Letta

Letta & C. lavorano alla "non vittoria" del centrodestra. E Bersani invoca l'accozzaglia con i 5s

«Sarà il sole o sarà la luna, ma il risultato di queste elezioni sarà chiaro», dice Enrico Letta. La metafora celeste gli serve per ribadire il concetto: o io o Meloni, o il Pd, che «è la sinistra», oppure la destra.

E «non ci sarà una terza strada che consentirà di fare chissà cosa», è l'avvertimento rivolto a chi coltiva ambizioni terzaforziste. Come i Cinque stelle di Conte (peraltro già bombardati di loro dal padre-padrone Beppe Grillo) o - soprattutto - come Carlo Calenda. Che continua a non sciogliere la riserva sull'alleanza chiestagli dal Nazareno («Tra qualche giorno saprete», risponde sibillino), facendo crescere l'allarme tra i dem. Senza una «gamba» centrista e moderata, il Pd si ritroverebbe sbilanciato, con un fardello di alleati che reclamano posti (da Leu di Speranza a Sinistra italiana e verdi di Fratoianni-Bonelli a Demos che fa capo a Sant'Egidio al neo-partito di Di Maio) e non portano voti. «Se Azione e Italia viva non corrono in coalizione con il Pd - avvertiva ieri il direttore dell'Istituto Cattaneo Salvatore Vassallo - le possibilità del centrosinistra di competere nei collegi si ridurrebbero ancora di più, aumentando le chance del centrodestra». A Letta il problema è chiaro, tanto che ha chiesto ai segretari regionali di Toscana e Emilia di lasciare liberi almeno una decina di collegi «buoni» sull'uninominale da offrire ai potenziali alleati. Del resto una formazione calendian-renziana autonoma, è il timore ai vertici Pd, certo potrebbe drenare voti dall'area moderata di destra causandone la «non vittoria», come la chiama Calenda, ma «toglierebbe voti anche a noi del Pd», indebolendone fortemente le chance. E minando quello che è il primo obiettivo del segretario dem, ossia fare del Pd il primo partito italiano, battendo Fdi dato leggermente in testa nei sondaggi.

Un risultato che non cambierebbe più di tanto l'esito generale del voto, ma rafforzerebbe il Pd e la posizione del suo leader: anche in caso di sconfitta, difficilmente si aprirebbe la resa dei conti interna contro il segretario. Che nel frattempo, grazie alla scelta dei candidati su cui gli spetta l'ultima parola, cercherà di formare - nel nome del «rinnovamento» - dei gruppi parlamentari a lui fedeli. Anche per questo, dietro l'apparente unaniminismo registrato nella Direzione Pd di martedì, le tensioni interne sono assai forti. C'è chi, come Goffredo Bettini o il ministro Andrea Orlando, si è pronunciato apertamente contro l'alleanza con Calenda e contro le aperture di Letta agli ex di Forza Italia e al voto moderato. Sia perché, è il sospetto che qualcuno ammette dalle parti del Nazareno, «così la sconfitta sarebbe più netta, e quindi si potrebbero aprire le danze congressuali» (e Orlando potrebbe aspirare alla segreteria di un Pd spostato a sinistra, in salsa melenchoniana). E sia perché una fetta consistente del partito guarda ancora al M5s come al partner politico più sexy e appetibile, e questo nonostante la visibile disintegrazione del partito contiano. La situazione è surreale: la rottura a livello nazionale è stata sancita irrevocabilmente da Letta, che ha accomunato Conte a Salvini e Berlusconi nel «trio di irresponsabili» che hanno provocato la caduta del governo Draghi.

Ma in molte realtà l'alleanza con gli «irresponsabili» non solo permane, ma viene addirittura rivendicata o auspicata da autorevoli dirigenti del Pd. Per non parlare di chi, come l'ex segretario Pd Pierluigi Bersani (oggi in Leu, dunque in teoria alleato del Pd), continua a farsi portavoce del terremotato Giuseppi, supplicando il Pd di «ripensarci» e di non «fare fatwe» contro i poveri grillini: «Almeno un tentativo con loro va fatto». Gli replica Gianni Cuperlo: «Tra Turati e Bava Beccaris (ossia Conte, ndr) dobbiamo stare dalla parte giusta».

In Sicilia, allo stato, il Pd corre insieme ai 5s alle Regionali di novembre. Nel Lazio, il governatore Zingaretti (pronto a reclamare il seggio Roma 1, ipotecato in caso di alleanza anche da Calenda) inneggia all'intesa coi grillini - già presenti nella sua giunta - per le future regionali. Lo stesso fa il sindaco di Bologna Lepore: «Continueremo ad unire quel che altrove è diviso», gorgheggia. Mentre il governatore emiliano Bonaccini è di tutt'altro avviso: «Mi dicevano: senza M5s perdi. Invece governiamo benissimo da otto anni con una coalizione che va da Renzi a Calenda alla Schlein».

E anche il Lombardia è scontro: il capogruppo regionale del Pd Fabio Pizzul invoca il dialogo coi grillini: «Dobbiamo costruire un'alternativa con chiunque ci stia». Ma il sindaco di Milano Beppe Sala stoppa seccamente la deriva: «Dopo tutto quello che è successo, quando sento dire che dovremmo andare coi Cinque stelle la mia risposta è: not in my name. Io non ci sto».

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