Nemmeno lei ce l'ha fatta. Dopo Hillary Clinton, anche Kamala Harris è caduta di fronte all'apostolo del politicamente scorretto anti-femminista. E insieme alla candidata ha perso l'apparato del partito democratico, cui la Harris appartiene di diritto. Colpa di una campagna elettorale anomala, iniziata in ritardo dopo la rinuncia di Joe Biden. O semplicemente di un'immagine politica sbiadita, che non è riuscita a parlare agli americani. Perfino l'ottantenne Willie Brown, ex sindaco di San Francisco, suo mentore politico, qualche tempo fa usava per la Harris parole che lasciavano presagire il risultato finale: «È ancora un mistero. Un vero mistero». Lui Kamala la conosce bene. Alla fine degli anni '90 la giovane procuratrice distrettuale cercava una strada nella politica californiana e si legò con una per nulla segreta relazione a Brown, uno dei boss del partito democratico locale, più vecchio di una ventina d'anni. Alla fine i due si lasciarono, ma il fatto che l'anziano capo-cordata abbia delle difficoltà nel definire la posizione politica della sconfitta la dice lunga.
Per spiegare la carriera della Harris qualche tempo fa l'Economist ha fatto ricorso a una semplificazione. Ad avere successo in America sono due tipi di politici: quelli che si impongono con il carisma o l'ideologia come Barack Obama o Donald Trump; o gli «insider», che percorrono il cursus honorum istituzionale passo dopo passo, come i due Bush, padre e figlio, e come Joe Biden. Kamala appartiene a quest'ultima categoria. E nel salire un gradino per volta, ha sviluppato una capacità tattica con pochi uguali. Ma è lo stesso motivo per cui i suoi critici le hanno sempre imputato la mancanza di convinzioni profonde e un opportunismo legato alle convenienze del momento e alle oscillazioni dell'umore elettorale. Sulla pena di morte, per esempio, uno dei temi chiave della politica Usa, la sua posizione è rimasta un mistero. Quando era giovane e combattiva procuratrice distrettuale si dichiarò pronta ad abolirla, arrivata alla poltrona di procuratrice dello Stato di California si rifiutò di farlo. Da candidata presidente ha preferito non pronunciarsi.
Certo, agli inizi la storia della Harris sembrava un bigino dalla carriera politica liberal e progressista. La madre, endocrinologa di vaglia, nata in una famiglia di bramini dello Stato indiano di Chennay, e il padre, economista giamaicano, primo afro-americano con cattedra a Stanford, si incontrano a una manifestazione di protesta nella Berkeley degli anni Sessanta. Sul passeggino la piccola Kamala partecipa a tutte le marce per la pace e i diritti. Il ritrovo di famiglia sono i centri sociali dove anche le Pantere Nere sono di casa. Ma Kamala, una volta decisa a entrare in politica, dalla periferica Oakland sceglie di sbarcare a San Francisco, appena dall'altra parte della baia. E dopo aver frequentato a lungo la zona di Haight Ashbury, culla della cultura beat, diventa un'habitué di Pacific Heights, il quartiere prestigioso dove abitano i ricchi e famosi. Sa scegliere le amicizie giuste: oltre al già citato Brown, si avvicina a due pilastri del partito democratico della costa ovest come Nancy Pelosi e Dianne Feinstein.
Quando il giovane Obama si affaccia al proscenio nazionale l'amore scoppia a prima vista. La Procuratrice dello Stato è tra i primi esponenti democratici di spicco della California a dichiararsi per il candidato emergente. Tutta l'ultima campagna elettorale dimostra quanto il rapporto tra i due sia ancora forte. Dopo l'elezione in Senato, Kamala mette a frutto i lunghi anni di lavoro come Procuratore statale. È molto brava nel gestire il contraddittorio, riesce a trovare slogan popolari ed efficaci (meno brillante risulta nei discorsi pubblici). I suoi giorni più gloriosi sono quelli delle audizioni di Brett Cavanaugh per la nomina a giudice della Corte Suprema. Le domande della Harris in diretta tv sul conservatorismo del giurista vicino ai repubblicani, considerato anti-femminista, sembrano metterlo in difficoltà. Al momento del voto Cavanaugh viene confermato senza difficoltà, ma la Harris si è fatta un nome come paladina delle nobili cause. Lei incassa i consensi ma è anche molto attenta a non andare troppo a sinistra. Gioca sulla sua carriera di Procuratore, si definisce «top cop», poliziotta numero uno, oppure «progressive prosecutor», il pm progressista.
La strategia di immagine viene confermata nel corso della campagna elettorale per la presidenza, quando, come ha scritto il New York Times, «si è vantata di proteggere casa con una pistola Glock, ha proclamato a piena voce il suo patriottismo e ha fatto campagna con Liz Cheney», la figlia dell'ex vicepresidente, paladina dei conservatori anti-trumpiani. La scommessa della Harris è stata quella di non prendere mai esplicitamente le distanze dall'ala sinistra del partito democratico, approfittando però di un'attenuazione dei furori ideologici dei liberal più estremi per riposizionarsi in chiave moderata. Del resto le elezioni si vincono al centro e cercando di non crearsi troppi nemici.
Finché la Harris era la numero due di Joe Biden l'obiettivo era quasi
dichiarato. Un vecchio detto della politica Usa dice che l'unica missione di un vice-presidente è quella di non farsi notare troppo e di non fare troppi danni. Quando si è trattato di giocare da sola, però, non è bastato.
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