L'odissea del soldato in ospedale per 54 anni

Nel '62 un'anestesia causò danni irreversibili. È morto senza mai lasciare il letto della clinica

L'odissea del soldato in ospedale per 54 anni

Negli ultimi suoi 54 anni di vita se così vogliamo chiamarla - James aveva reimparato a biascicare solo tre parole: «home», «pub», «horses». Tre punti cardinali, i tre grandi amori della sua vita: la casa, gli affetti familiari; il pub, dove si recava il sabato sera con gli amici per una Guinness (che poi magari diventavano sei, sette, otto...) e i cavalli. Ne avrebbe forse re-imparata una quarta. Un nome di donna, magari. Una Mary, una Elizabeth, una Margareth. Ma non c'era stato neppure il tempo di farsela, una fidanzata. Il sipario era calato ancora prima.

Era il 1962. James aveva 21 anni e faceva il militare nei «Cameronians» (Fucilieri di Scozia) di stanza in Germania. Un banale incidente d'auto, un giorno, nel corso di un'esercitazione di routine. Naso rotto, e anche una gamba. Una fesseria. Roba di ordinaria amministrazione anche cinquant'anni fa, in un qualsiasi reparto di ortopedia. Qualcosa però andò storto, durante l'operazione. Un'anestesia sbagliata, verosimilmente. Sta di fatto che James andò in arresto cardiaco. E per un tempo così prolungato da ricavarne danni cerebrali irreversibili. Da allora James è vissuto come un prigioniero, un condannato a vita, costretto in un corpo muto, inerte, che non rispondeva più a nessuno stimolo.

Cinque decenni passati a guardar fuori dalla stessa finestra lo stesso pezzo di mondo. Le stagioni che si susseguivano, i platani che perdevano e rimettevano le foglie, i colori del cielo che bastava guardarlo per capire se si stava avvicinando la primavera o se si era già in prossimità dell'autunno. Cinque, dieci, quindici anni... Cinquantaquattro, infine, sempre incarcerato dentro un corpo ostinatamente disubbidiente. E chissà che pensieri, che tumulto di sentimenti, che angoscia, e quanta disperazione dietro gli occhi di quel ragazzo che si andava trasformando in un uomo. No, meglio illudersi, convincersi che insieme col corpo di James se ne fosse andato via tutto il resto: i ricordi, le emozioni, i sogni, i progetti. Ma quelle tre parole: home, pub, horses sussurrate a mezza voce dicono che per James non c'è stata misericordia; che James il carcerato senza colpa era lì, e sapeva, sentiva, soffriva, piangeva forse, senza saper neppure più fare questo.

«Capiva tutto - ha confermato suo fratello Karl, 62 anni, di Coatbridge, nel North Lanarkshire - ma non riusciva a comunicare. Col tempo imparò a mormorare solo quelle tre parole che più gli scaldavano il cuore: casa, pub, cavalli». Da allora, dal 1962, James è sempre rimasto ricoverato al Wester Moffat hospital, giù nel Lanarkshire (Siorrachd Lannraig in gaelico) nel sud della Scozia. «Jimmy è stato come un parente per molti di noi», ricorda commossa Helen Ryan, capo infermiera al Wester Moffat. Dal lontano 1962 (i Beatles incidevano quell'anno Love me do) gli infermieri, i medici, tutto il personale del «Moffat» è cambiato non si sa quante volte. L'unica presenza fissa, per più di mezzo secolo, è stata quella di Jimmy Morris. «Era come il più fidato degli amici, uno a cui non si poteva non volere bene», dice Helen. Karl, il fratello. «Certe volte, magari in occasione dei suoi compleanni, organizzavano delle festicciole in reparto.

La musica? La musica era sempre quella di Elvis, Elvis Presley, di cui Jimmy era un fan scatenato». James Morris, che non ha fatto neppure in tempo a innamorarsi dei Beatles, è morto il giorno di Pasqua. Aveva 75 anni. Riposi in pace.

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