Dalla lotta all'ebola alla malaria. In Africa il Guido sconosciuto

Fresco di laurea in medicina attraversò il continente nero per debellare i focolai di colera. Dal 2012 si è diviso tra Sudan e Sierra Leone: "Un fatto di coscienza"

Dalla lotta all'ebola alla malaria. In Africa il Guido sconosciuto

I suoi sponsor, coloro che insomma ne tirano la volata per governare Roma, amano ripetere che Bertolaso è l'uomo giusto per la Città Eterna soprattutto per il suo approccio spiccatamente pragmatico nel risolvere i problemi. Bertolaso, dicono i suoi sostenitori, non è uno che si perde in un bicchier d'acqua e ha l'approccio giusto per affrontare grane e imprevisti come solo una grande città sa offrire.

Per fare un esempio su mille, in molti tirano fuori l'aneddoto di quando appena trentenne, si ritrovò in una giungla cambogiana ad allestire in fretta e furia dal niente un piccolo ospedale da campo. Lo stesso Bertolaso ai suoi detrattori è solito ribattere che chi ha avuto a che fare con i khmer rossi di certo non si spaventa davanti a grillini esagitati o pieddini imbaldanziti dalla retorica renziana.

Il cuore della «biografia» di Bertolaso, però, è e resta l'Africa. Non quella immaginaria decantata a suo tempo da un ex sindaco della Capitale quale luogo in cui ritirarsi dopo la politica, luogo in cui riformulare il proprio spirito di servizio (ma solo a parole). No, l'Africa di Bertolaso è fin troppo drammaticamente reale. È lì che si ritrova fresco di studi specialistici (aveva da poco conseguito un master in malattie tropicali all'università di Liverpool). Non una bella poltrona, non un posto fisso o contratto a tempo indeterminato, ma in giro per il continente nero a seguire di volta in volta i focolai di colera. Come volontario. Una volta in Mali, un'altra in Senegal. E poi ancora Burkina Faso, Nigeria, Somalia. Sempre con la valigia in mano. Sempre su una jeep coi giovani colleghi, pieni di speranza e di voglia di fare, e con i testa i racconti e gli exempla di Albert Schweitzer. Un amore, quello per l'Africa, che non abbandonerà mai il celeberrimo capo della Protezione civile. Tanto che è lì che torna quando i riflettori dei media italiani si spengono. Nel 2012 il suo buen retiro non è una villa con vista mare bensì un piccolo ospedale a Yian nel sud del Sudan dove la Cuamm, la più antica Ong italiana che opera per la cooperazione e lo sviluppo dei Paesi africani, ha allestito un centro per combattere la malaria cerebrale. Un «mostro» contro il quale si lotta ancora «a mani nude». Lo stesso Bertolaso ha ricordato una volta che questa malattia vanta tragici record che vengono del tutto ignorati in occidente. «Se fosse un problema degli Stati Uniti o dell'Europa, come l'Aids, - ha spiegato l'ex capo della Protezione civile - avremmo il vaccino. Invece usiamo ancora il chinino».

Due anni dopo, nel 2014, Bertolaso si ritrova in Sierra Leone, sempre per conto del Cuamm. Qui c'è un'altra emergenza da affrontare. E con un nome che al solo evocarlo mette paura: ebola. Di quell'esperienza lo stesso Bertolaso ha scritto. E alcuni stralci dei suoi diari di allora sono stati pubblicati a suo tempo dal nostro giornale.

«Quando ho deciso di accettare la richiesta di Don Dante, direttore del Cuamm, di partire subito per la Sierra Leone a dare una mano ai medici che lavorano nell'ospedale di Pujehun - scrive - sapevo che avrei dovuto superare la feroce e più che comprensibile obiezione di tutti, famiglia, parenti, amici vari e cari. Tuttavia ci sono (almeno) due buone ragioni per essere qui, in Sierra Leone, oggi. La prima riguarda un impegno che i medici si assumono quando prendono la laurea, si chiama giuramento di Ippocrate. Anche se non sono certo che tutti i colleghi lo conoscano e lo rispettino si tratta di un contratto che si stipula a vita, niente a che vedere con sindacati o ministeri. Riguarda la coscienza di ognuno e la volontà o capacità di sentirsi al servizio del prossimo, senza distinguo, senza comodi alibi».

Era una sorta di debito che Bertolaso voleva onorare con l'Africa, visto che nei primi anni Ottanta stava per accettare l'incarico propostogli dall'Unicef di dirigere la sede somala dell'agenzia quando fu richiamato dalla Farnesina come responsabile dell'assistenza sanitaria ai Paesi in via di sviluppo,

impegno che lo ha occupato per tutti gli anni Ottanta. All'Unicef (di New York) è andato invece nel '93 come responsabile della sezione che si occupa dei diritti dell'infanzia e adozioni internazionali, e interventi umanitari.

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