Lunedì mattina, all'indomani dei risultati delle parlamentarie del Movimento 5 stelle, in un bar vicino al Pantheon a Roma, una signora di Reggio Emilia offre al cronista le registrazioni di conversazioni telefoniche del nume tutelare dei grillini, Beppe Grillo, di una presunta liaison nella città emiliana. Ci sarebbero solo accenti pruriginosi, a parte qualche giudizio sul sistema giudiziario italiano non in linea con il pensiero ufficiale del Guru. Argomenti da rotocalco rosa, che al cronista non interessano. Quello che interessa, invece, è il momento: perché la rivelazione arriva proprio quel giorno? Semplice: basta dare un'occhiata al calendario. Chiuse le liste, si apre la stagione delle polemiche, delle minacce, dei rancori nel movimento. Con mezzi più o meno leciti. C'è chi la butta sul personale e chi, invece, come i pionieri liguri dei 5 stelle, si getta in dispute legali mettendo a rischio la presentazione del simbolo nella regione. O chi, invece, mette in piedi comitati di protesta come «azzeriamo tutto» in Puglia. «Un casino - osserva Aldo Giannuli, storico del grillismo nostrano e ricercatore alla Statale di Milano - che rischia di mettere a rischio pure il risultato elettorale». E il primo segnale è la decisione dello stesso Beppe Grillo, che si riprende il suo blog per tirarsi fuori da quella mischia foriera di guai. Se ne va alla ricerca dell'utopia, lasciandosi alle spalle la distopia del presente.
Era fatale: in un movimento che molti hanno preso come un autobus per arrivare in Parlamento, la delusione può essere cocente. Sono gli inconvenienti che si porta dietro la trasformazione dei militanti di un tempo, in ceto politico. In questo caso avviene con il linguaggio e i modi violenti tipici del grillismo, ma capita in forme diverse anche negli altri partiti politici. Tant'è che per avere dei sondaggi realistici, bisognerà attendere che nelle prossime settimane la rabbia si sedimenti, per valutare i danni che la bagarre, gli scontri, gli odii hanno provocato.
Nessuno ne è immune. Se pensi che un personaggio storico di una certa sinistra, il medico di Lampedusa Pietro Bartolo, era stato spedito in Lombardia (per cui ha rinunciato), mentre al portavoce al Senato di Piero Grasso è stato assicurato un collegio blindato. Ti sposti sul versante renziano e la situazione non cambia. Qui c'è il «caso» Di Pietro. L'ex magistrato più famoso d'Italia - questa è la sua versione - sarebbe stato contattato nelle scorse settimane dal presidente della Regione Molise, Paolo di Laura Frattura per un seggio uninominale. Poi, martedì scorso il segretario regionale del Pd molisano, Micaela Fanelli, ha comunicato al figlio dell'ex magistrato, Cristiano, che la cosa era in forse. Poi gli hanno cominciato a dire «si saprà venerdì sera»; poi «sabato mattina»; e, ancora, «sabato sera». In realtà Renzi da tempo aveva maturato il «no»: «Finché sono io il segretario - diceva - per lui non c'è posto nel Pd». «Tergiversano - ha spiegato agli amici l'ex magistrato che ieri a pranzo ha cominciato a mangiare la foglia - perché hanno paura che io gli risponda candidandomi alla presidenza della Regione Molise. E non sbagliano. Eppure non gli ho chiesto un collegio sicuro a Bologna. In Molise il Pd è sotto di dieci punti. Detto questo mi aspetto un No. Io li ho avvertiti che potrei accettare solo una candidatura da indipendente, perché vorrei lavorare per rimettere insieme i cocci della sinistra. E non sarei disponibile ad accordi di governo post elettorali con Berlusconi. È questa mia opinione che non piace a Renzi». Nella reazione di Di Pietro non c'è il folklore grillino, ma c'è la critica politica acuminata che in un certo mondo paga. In sintesi, dice Di Pietro: Renzi preferisce il Cavaliere a me. C'è da scommettere che le minoranze del Pd, scontente per i seggi avuti, gli faranno il verso. Le parole dell'ex magistrato fanno, comunque, tirare un sospiro di sollievo al responsabile giustizia del Pd, David Ermini: «Almeno il problema Di Pietro ce lo siamo risparmiato!».
Di tutt'altro tenore è la delusione di un personaggio che è agli antipodi di Di Pietro come Denis Verdini. Lì si è rotto un amore. Anzi, due. Alla fine il consigliere per «eccellenza», prima del Cav poi di «Matteo», ha rimesso nel cassetto anche il simbolo dell'Edera, il sogno di una cavalcata solitaria nel nome di una sua vecchia passione delle origini, il partito Repubblicano. «Chi mi ha deluso di più tra Renzi e il Cav? Renzi - sospira Verdini - la sua non è una coalizione, è una coalizione inventata. E pensare che ad agosto Berlusconi mi aveva chiesto di organizzargli la quarta gamba... E gli ho detto di No». Se lui reagisce con la diplomazia di chi ne ha viste tante, i suoi non trattengono, però, l'amarezza. «Questo giro passiamo - si limita a dire Lucio Barani, ex capogruppo dei senatori verdiniani che fino a qualche settimana fa hanno tenuto in piedi il governo Gentiloni - presentarci da soli ci avrebbe richiesto un grande sforzo per nulla. A Renzi manca un lobo in testa, quello che serve in politica. Dopo tutto quello che abbiamo fatto per lui, non ci ha dato nulla. E pensare che se avessero accettato l'alleanza con noi, Verdini non si sarebbe neppure presentato. Del resto cosa ti puoi aspettare da uno che ha bruciato un risultato come il 40% delle Europee nel giro di un anno?!».
Anche sul versante del centrodestra immagini simili, ma con un copione diverso. Certo c'è l'ira nature di Antonio Razzi. «L'ultima proposta che mi hanno fatto - si lamenta - è quella di candidarmi all'estero. Ma è come dirmi picche, io dalla Svizzera manco da 12 anni. Sarebbe stato meglio se mi avessero detto Caro Anto Non c'è posto per te!. Quello che non mi va giù è che hanno fatto fuori me e, invece, sono in lista tanti che hanno tradito Berlusconi. Lui non mi ha chiamato: gli avrei detto che sono tutti invidiosi della mia popolarità. Per la presentazione del mio libro mi hanno invitato ovunque in Europa, in America, a Singapore, a Kathmandu, fino in Australia». Ma ci sono anche le polemiche, le minacce, studiate, scientifiche, finalizzate che hanno caratterizzato l'estenuante trattativa tra il Cav e i centristi, i custodi della liturgia democristiana. Si era partiti malissimo. Nel primo incontro sulle candidature Berlusconi li aveva quasi cacciati: «Siete rimasti quelli di una volta Non siete cambiati. Via!». E i suoi interlocutori avevano minacciato di andare da soli. Tanto che gli esuli di Alfano erano rimasti attoniti: «Ma come - è stato lo sfogo di un Maurizio Lupi incredulo - prima noi volevano andare da soli e ci avete convinto di andare in coalizione: e ora, invece, da soli volete andarci voi! Ma siete matti!». Poi, gira che ti rigira, giorno dopo giorno, le richieste della quarta gamba si sono avvicinate, sono passate da Marte alla Luna fino al sì del Cav. Tutto a posto? Ancora no. Ora la contrattazione all'ultimo seggio sta dilaniando la quarta gamba al suo interno. Da una parte i postdemocristiani di Cesa, dall'altra i post-dc di Fitto. Sono volate parole grosse. Venerdì quest'ultimo aveva minacciato: «Io non mi candido più!». Ma alla fine si troverà la quadra: i dc sono fatti così. Se ne sta facendo carico il Cav, che si è assunto pure l'onere di mediare tra i due. Solo che, dopo tutto questo bailamme, a qualcuno è rimasto in testa un dubbio. «Non vorrei - ha ironizzato Renato Brunetta - che alla fine Forza Italia prenda meno seggi dei voti che ha». Il rischio c'è, ma con questa strana legge elettorale sono tanti i sacrifici che si fanno sull'altare della vittoria. Del resto la bussola che ha guidato Niccolò Ghedini, uno dei plenipotenziari del Cav nella trattava sulle liste, nasce sull'esperienza del passato: «Abbiamo perso elezioni per ventimila voti, per cui bisogna trovare l'accordo con tutti».
Così a quelli di Arcore, non rimane che confidare nel vento che tira nel paese, sperando che non cambi verso o che non sia una brezza. «Io ho un sondaggio - giura il coordinatore regionale Massimo Palmizio, con l'aria di chi non sa se crederci o se è uno scherzo - che dà nell'Emilia rossa il centrodestra un punto e mezzo sopra il Pd».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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