La lunga parabola discendente da Cameron all'odiato Sunak (e il calcio dell'asino di Farage)

Brexit sottovalutata, crollo della sterlina e Covid malgestito: i disastrosi 14 anni dei conservatori al potere. Con il ritorno del leader anti-Ue

La lunga parabola discendente da Cameron all'odiato Sunak (e il calcio dell'asino di Farage)
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I quattordici anni consecutivi al potere dei conservatori erano cominciati con una inedita coalizione e sono finiti con una sconfitta bruciante. Era il maggio 2010 quando David Cameron riuscì a porre fine a una striscia di esecutivi laburisti di durata quasi identica (13 anni) inaugurata dall'innovatore centrista Tony Blair: senza una maggioranza assoluta, Cameron riuscì a governare solo dopo aver stretto un patto con i lib-dem di Nick Clegg, che divenne vicepremier. Il primo governo di coalizione britannico dal 1945 fu chiamato a gestire le conseguenze della grande crisi finanziaria del 2008, con i conti pubblici a pezzi e drammatiche misure di austerità.

Viste le premesse, Cameron e Clegg non se la cavarono male e alle elezioni del 2015 i Tories ebbero la maggioranza assoluta: il nuovo governo Cameron scaricò i liberali, pressoché azzerati. Dopodiché, fu il disastro. Sentendosi forte, Cameron commise l'errore fatale di affidare a un referendum (giugno 2016) la decisione sulla permanenza del Regno Unito nell'Ue. Il premier era certo che gli elettori avrebbero premiato la sua posizione per il «remain», ma finì deluso: il sindaco conservatore di Londra Boris Johnson cavalcò la causa contraria e, contro ogni previsione, la Brexit prevalse col 52%. Cameron si dimise, ma non fu l'impulsivo Johnson a prendere il suo posto bensì dopo una sanguinosa guerra interna al partito la mediocre outsider Theresa May.

Debole nel partito e nei faticosi negoziati con l'Ue, la May navigò con fatica in una stagione di lotte intestine. Tentò di svoltare nell'aprile 2017 con elezioni anticipate, ma andò male, tanto che il nuovo governo May dovette richiedere una stampella parlamentare al piccolo partito unionista dell'Ulster (Dup). Le divisioni tra i Tories continuarono penosamente, in patria e a Bruxelles. Finché nel gennaio 2019 i ribelli la liquidarono con un umiliante voto di sfiducia, anche se la May rimase al suo posto per altri quattro mesi (solo perché nuove elezioni sarebbero state perse).

Era così venuto il tempo del funambolico Boris Johnson. Vincitore di nuove elezioni anticipate (ottobre 2019) con la promessa di mettere in atto la Brexit, ultraliberale perennemente spettinato e sopra le righe, rischiò di morire di Covid dopo aver tardato a imporre una linea di duri divieti, fu processato in Parlamento per aver dato un festino alcolico a Downing Street in barba alle norme restrittive in vigore e mentito in varie imbarazzanti circostanze, divenne il più deciso paladino della difesa armata dell'Ucraina aggredita da Mosca.

Caduto nel luglio del '22 sotto il peso degli scandali, Johnson fu sostituito dall'ultraconservatrice Liz Truss. Di lei si ricordano tre cose: che fu l'ultima premier nominata dalla regina Elisabetta, che il suo disastroso programma economico portò la sterlina a un fulmineo tracollo e che il suo fu il più breve governo (49 giorni) della storia britannica.

Il partito si affidò allora a Rishi Sunak, che divenne il primo premier britannico di origini indiane.

Incapace di gestire l'immigrazione illegale, ma anche di capire che abbandonare un vertice occidentale per registrare degli spot elettorali gli avrebbe rovinato l'immagine, non ha potuto far altro che convocare ennesime elezioni anticipate. Perse ieri rovinosamente anche grazie al «calcio dell'asino» del leader populista di destra Nigel Farage, che ora minaccia di trasformarsi nel becchino dei Tories.

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