Da Casini a Fico, passando per Bertinotti, Fini e la Boldrini. La chiamano “la maledizione dei Presidenti” e, a partire dai primi anni 2000, ha colpito tutti gli inquilini di Palazzo Montecitorio.
La terza carica dello Stato, dalla Seconda Repubblica in poi, fatta eccezione per Luciano Violante, è stata destinata al leader di uno dei partiti minori che componevano la maggioranza di governo. Il Presidente della Camera, poi, è un ruolo istituzionale e chi lo ricopre, solitamente abbandona gli incarichi di partito per assumere, appunto, un aplomb istituzionale, al di sopra delle parti. Ed è così, nel 2001, dopo la vittoria del centrodestra che riporta Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi, Pier Ferdinando Casini lascia la guida del suo partito per accasarsi a Montecitorio. Marco Follini diventa prima segretario dell’Udc e, poi, dal 2004 vicepremier. Da quel momento Casini e Follini giocheranno in tandem per “puntellare”, o meglio martellare il governo. "L'Udc sta facendo molti errori. Casini? Non sa dove andare, si trova in mezzo al guado", dirà Berlusconi sempre più infastidito dai continui distinguo dell’allora presidente della Camera. Si arriva alle Regionali del 2005 che decretano una sconfitta per Berlusconi che viene costretto a dar vita a un nuovo esecutivo. Follini ne resta fuori per dedicarsi al partito e nel 2005 si dimette da segretario e di lì a poco passa col centrosinistra. Casini, qualche anno dopo, seguirà la sua stessa strada e la carriera politica di entrambi ne risentirà in maniera decisiva.
Fare i “grilli parlanti” della propria maggioranza di governo, non paga. Lo sa bene Fausto Bertinotti che diventa presidente della Camera grazie al 5,8% ottenuto da Rifondazione Comunista alle Politiche del 2006. A distanza di 10 anni, la sinistra litiga ancora su chi sia il responsabile della caduta del secondo governo Prodi: se Clemente Mastella che gli tolse la fiducia o, pur usare le parole del ‘Professore’, “chi ha minato continuamente l'azione del governo, di chi ha fatto certe dichiarazioni istituzionalmente opinabili...”, ossia Bertinotti che lo aveva paragonato al “più grande poeta morente”. Non solo. L’allora presidente della Camera aveva definito il suo governo “un brodino caldo”. Espressione che gli si rivolterà contro dopo il voto delle Politiche del 2008, quando la sinistra radicale, per la prima volta, non entra in Parlamento. Prodi si vendicherà dicendo: “A Bertinotti consiglio di rinfrancarsi con un brodino riscaldato”.
Una sorte migliore non è certo toccata a Gianfranco Fini che, dopo aver cavalcato l’onda del giustizialismo e aver fatto cadere il quarto governo Berlusconi nel 2011, è finito egli stesso nel tritacarne dei processi per colpa della famosa ‘casa di Montecarlo’. Resterà indelebile nella memoria della cronaca politica la direzione del Pdl dell’aprile 2010 in cui Fini viene ripudiato come presidente della Camera e come alleato di governo. “Se vuole fare delle dichiarazioni politiche, prima si dimetta dalla presidenza della Camera", sentenzierà Berlusconi. Una frase a cui Fini replicherà con l’ormai notissimo: “Che fai? Mi cacci?”. Il resto è storia. Una storia che si conclude con una cifra che sarà la pietra tombale su Fini come uomo politico: quello 0,4% ottenuto da Fli alle Politiche del 2013.
È certamente prematuro ipotizzare che Roberto Fico diventi l’ispiratore/promotore della caduta del governo ‘gialloverde’ e tantomeno che abbia in mente di fondare un partito tutto suo ma i continui distinguo in materia di immigrazione sembrano il remake di un film già visto.
Ora non ci è dato sapere nemmeno se questo film sia la ‘riedizione’ di quelli appena descritti oppure se Fico aspiri semplicemente a diventare il ‘paladino dei migranti’ così come lo è stata Laura Boldrini nella passata legislatura. Solo il tempo saprà dare risposta a questi quesiti ma il futuro si preannuncia timidamente burrascoso per il governo Conte.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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