Mandati dal padre a farsi esplodere

Il fratello del mancato stragista con la maglia di Messi è morto per ordine di papà

Luciano Gulli

Una donna vistosamente incinta così pare, almeno - che tiene per mano un bambino piccolo. Un mutilato che arranca sostenendosi a due stampelle fatte in casa. Un vecchio su una sedie a rotelle. Un biondo (tinto) col faccione da cuorcontento di Donald Trump stampato sulla maglietta. Prepariamoci al peggio, e a vederne di ogni; perché alla fantasia degli strateghi dell'Isis, che arretrano disperati su ogni quadrante sotto il martello dei caccia russi, siriani, americani e francesi, non c'è limite. Hanno cominciato con i bambini (fonte inesauribile di materiale a buon mercato, nel mondo islamico e orientale in genere). Passeranno alle giovani donne, seguendo il principio che in casi di emergenza (e non c'è dubbio che l'Isis versi in questa condizione) raccomanda: «Prima le donne e i bambini». Poi si vedrà, seguendo l'estro del momento.

Non vi sembreranno così peregrine, le righe che avete appena letto, quando avrete saputo dei due fratelli iracheni «allenati» dal padre, un formidabile mascalzone mesmerizzato dalle profezie del Califfo, e avviati con orgoglio di padre, si suppone - sulla via del martirio. Del primo in realtà già sapete: è il ragazzino fermato a Kirkuk da un poliziotto che non si era fatto distrarre dalla maglietta di Messi, il calciatore, indossata dal mingherlino sopra una cintura esplosiva. Ieri, dramma nel dramma, la sorpresa più agghiacciante. Mentre il ragazzino di Kirkuk, 15 anni, cadeva nel sacco della polizia, suo fratello (se ne ignora l'età) si faceva esplodere in una moschea sciita a Mosul. Ma in modo così maldestro, e così evidentemente fuori tempo da riuscire a ferire solo due persone. Neanche un morticino da portare in «dono» a quel loro strano Dio affamato di sangue umano che venerano. Chissà la delusione del padre. Uno fa tanti sacrifici, e poi un figlio non sa neanche qual è il momento giusto per tirare il cordoncino che ha in tasca.

Eccola, dunque, la nuova strategia dell'Isis: spedire allo sbaraglio kamikaze sempre più giovani in modo da sfuggire ai controlli delle forze dell'ordine. Nessun rimorso, nessun pentimento da parte di genitori così evidentemente convinti di essere «unti» dal Signore Dio loro, (e «sciolinati» magari, chissà, anche da un pacco di dollari americani) che regalare all'Altissimo le vite dei loro figli deve sembrargli un privilegio, una fortuna che tocca solo ai «migliori». È la nuova strategia dell'Isis: quella di usare kamikaze sempre più giovani in modo da poter sfuggire più facilmente ai controlli.

Nuova fino a un certo punto, del resto. Già i pasdaran dell'ayatollah Khomeini, buon'anima, mandavano allo sbaraglio schiere di ragazzi che «bonificavano» il terreno, preparandolo all'assalto delle truppe corazzate, correndo tenendosi per mano fino a farsi saltare sui campi minati dalle milizie di Saddam Hussein. Per non dire dei talebani, che tanti dispiaceri hanno dato agli americani in Afghanistan ricorrendo all'arma letale di giovanissimi proiettili umani. Agli agenti, secondo la versione ufficiale, il quindicenne avrebbe raccontato in un primo tempo di essere stato «rapito, sedato e costretto» a compiere un attentato suicida da parte dell'Isis. Ma la versione del colonnello Arkan Hamad Latif, che si è «lavorato» a lungo il ragazzino insieme con i suoi uomini, è quella che si è detto.

Una verità ammessa infine dallo stesso quindicenne, la cui missione era di farsi esplodere in un quartiere sciita. Una verità agghiacciante, certo, ma dannatamente verosimile. Ma anche con questa impareremo a fare i conti.

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