Quello che si combatte sulla pelle dei migranti - 49 disperati, un numero che non dovrebbe (e potrebbe) impensierire alcun Paese civile al mondo - non è soltanto l'ennesimo, stucchevole strascico polemico di una politica dell'immigrazione in larga parte fallimentare portata avanti da decenni. È anche il primo terreno di confronto (forse parola più corretta di «scontro») tra i due alleati che di qui a quattro mesi si troveranno in piena bagarre elettorale per le Europee, dovendo paradossalmente sia gestire l'unitarietà dell'azione di governo, sia le differenziazioni necessarie a misurarsi elettoralmente. Tanto più «forti» mediaticamente, queste ultime, quanto maggiori saranno le convergenza fattuali.
Le ultime 48 ore rappresentano, in tal senso, un campionario perfetto dell'assurdità della convivenza. Salvini che insiste sui «porti chiusi» («Se cediamo oggi - ha spiegato - domani siamo daccapo, gli scafisti tornano a far quattrini e le Ong che non rispettano norme e leggi continuano ad aiutare i trafficanti»); Di Maio che cerca di differenziarsi, anche a costo di aggiungere stupidaggini a stupidaggini (come quella di separare i migranti dalle loro donne e bambini; oppure di sollecitare l'intervento dell'Europa e nel contempo darle «uno schiaffo morale»). Le idee dei due vicepremier sono «divergenze parallele»: per Salvini si tratta di confermare una faccia «feroce» che gli ha concesso enorme popolarità di facciata, anche grazie alle continue accuse d'insensibilità nei confronti di «Olanda, Francia, Germania»; per Di Maio, meno esperto, di seguirlo con soluzioni fantasiose o superficiali («per me li deve prendere Malta e basta», l'ultima, subito contraddetta da Salvini: «Ne prendiamo zero»). Dopo l'appello del Papa, per i 5s sembra manifestarsi anche quella voglia di farsi garanti nei confronti del mondo cattolico e del Ppe, in funzione «anti-sovranismo» (secondo un retroscena - non confermato ma attendibile - della Stampa, sarebbe questa la mossa a sorpresa di Juncker, accettata da Conte in cambio di occhi più benevoli sulla manovra).
Ma poi, davanti all'affannarsi di visibilità e posizionamenti tattici, c'è la realtà che avanza. Una nave in balia delle onde e del cinismo generalizzato; un Paese nel quale il ministro Toninelli (che interpreta come può) accusa le Ong di «non aver rispettato le leggi del mare» e minaccia le autorità portuali (Napoli o Palermo) che dovessero prendere decisioni non autorizzate. «Nessuna autorità di sistema portuale può arrogarsi prerogative che travalicano le sue funzioni amministrative; darò mandato alle strutture del mio ministero di valutare eventuali accertamenti di natura disciplinare», dice il ministro, così dando una gran mano alla linea Salvini. Il quale imperversa sui social, ribadendo di non voler «arretrare di un millimetro: i porti rimangono chiusi, sbarrati, in Italia non arriva nessuno». A Di Maio che tentava di opporre un principio di collegialità, «la linea la decide il governo intero», Salvini tappava la bocca con un perentorio e un po' assurdo concetto: «Giusto che Di Maio parli e che dica il suo pensiero. Va benissimo che parlino pure Fico e Di Battista e che si discuta tra di noi e con il premier, ma in materia di migranti quello che decide sono io.
Vogliono farci litigare ma con me non attacca». Ovviamente non è vero; così che la rappresentazione in onda, a rullo continuo, si direbbe quella della «libera parola in libero governo». Volano e voleranno felici, le parole, fino a maggio (almeno).- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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