Sarà un misterioso virus sprigionato dal processo sulla trattativa Stato-mafia. Una sorta di effetto collaterale di quello che si annunciava come il processo dei processi e che ora si avvia all'epilogo, a fine anno, dopo avere incassato qua e là più di una bocciatura e con tutte le caratteristiche del flop. Ad Antonio Ingroia, il papà di quel processo, il passaggio alla politica è andato malissimo. Ma al pm Nino Di Matteo, il pm antimafia che quel processo ha ereditato, potrebbe andare meglio. Già solo per il fatto che, contrariamente al collega, lui non sembra intenzionato a crearsi un partito tutto suo, ma sarebbe piuttosto pronto ad accomodarsi in casa M5s, movimento del quale ha benedetto il codice etico, e del quale - è questo il sogno - in un ipotetico governo potrebbe diventare Guardasigilli. Cinquantasei anni, palermitano, vita blindata dal 1993, il pm più minacciato da Cosa nostra deve la sua carriera alle stragi. È con le indagini su quegli eccidi, soprattutto su quello di Borsellino in via D'Amelio, che il giovane sostituto Nino Di Matteo approdato a Caltanissetta nel 1991 diventa l'eroe che i grillini oggi sperano di avere al proprio fianco. Oddio, le indagini su Borsellino non è che alla distanza si siano rivelate un successone, anche per Di Matteo, che era uno dei pm. Il nuovo processo Borsellino nato dalla revisione, scoperti falsi pentiti e depistaggi precedenti, si è appena chiuso. E ha confermato il grande flop della prima indagine.
Da Caltanissetta a Palermo, le stragi restano il filo conduttore dell'attività di Di Matteo. Che diventa l'erede naturale di Ingroia. C'è anche lui tra i pm della prova generale del processo sulla trattativa, quello contro il prefetto Mario Mori e l'ex colonnello Mauro Obinu, conclusosi in primo grado e in appello con l'assoluzione. E c'è lui soprattutto nella cabina di regia del processo su cui la procura di Palermo si gioca la faccia, quello sulla trattativa tra i boss e Cosa nostra. Un processo partito tra rulli di tamburo e che a Di Matteo ha già procurato più di qualche grattacapo. A cominciare dal procedimento davanti al Csm (poi archiviato) per avere indirettamente rivelato a Repubblica, confermandone l'esistenza, che le intercettazioni dell'allora capo dello Stato Giorgio Napolitano al telefono con Nicola Mancino non erano agli atti perché non rilevanti. Non è il solo dispiacere che il processo trattativa gli ha causato. L'ex ministro Calogero Mannino, processato con rito abbreviato, in primo grado è stato assolto. E l'ex caposcorta di Di Matteo, chiamato al processo come teste, andrà a giudizio per calunnia. Sempre in guerra, Di Matteo. Non solo contro la mafia. Anche con il Csm ha avuto le sue battaglie. Come quella per la promozione alla Direzione nazionale antimafia. Negata regnante Napolitano al Quirinale, l'ha ottenuta a marzo. «Sono stato costretto - ha esultato - a conciliare la delicatezza di certi impegni con la necessità di occuparmi di una massa di procedimenti su piccoli furti, truffe e reati comuni». Il procuratore capo di Palermo Francesco Lo Voi non ha gradito.
E gli ha risposto, con una lettera indirizzata a tutti i suoi pm: «La notorietà è un valore effimero». Però nel frattempo, per sei mesi, lo ha trattenuto a Palermo. Ad occuparsi del processo trattativa ma pure dei disprezzati furtarelli.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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