Quando, subito dopo il terribile incidente di Rafah, Benjamin Netanyahu ha parlato alla Knesset, i gesti decisi, la faccia smagrita dal 7 ottobre, le sue parole hanno disegnato le intenzioni e la personalità del primo ministro. Dopo aver detto che si era trattato di «errore tragico» di cui si dispiaceva e su cui stava indagando, Netanyahu ha esclamato il suo «no» a chi gli ha chiesto di fermarsi, dall'Onu all'Ue ai Tribunali Internazionali, alle proclamazioni unilaterali della Spagna, l'Irlanda e la Norvegia, alle condanne di Macron e tanti altri e alla gran baraonda dei media, tutti in gara a biasimarlo. Là, alla Knesset, 50 dei 120 membri hanno votato per il suo discorso, mentre rigettava le accuse «abominevoli» di frenare le trattative per gli ostaggi e si è rivolto ai suoi cittadini: «Se volete debolezza, sconforto, resa, ascoltate la tv. Ma se volete potere, spirito, vittoria, ascoltate i combattenti: i fini della guerra non sono cambiati, vincere Hamas, recuperare gli ostaggi, far tornare a casa i profughi. Se ci arrendiamo, daremo una grande vittoria al terrorismo, all'Iran, al suo asse del male, a tutti quelli che cercano distruzione». Qui in nuce, c'è la spiegazione della guerra di necessità di Netanyahu: mettere Israele al sicuro nel mondo. Del resto gli Usa, anche dopo l'incidente, hanno fatto capire che gli spostamenti di popolazione richiesti erano stati operati, e anche l'intervento umanitario; la pressione è gestita da Europa e Onu.
Netanyahu sa di essere il primo ministro sotto il quale Israele ha patito il maggiore disastro dal 1948: adesso combatte per restaurare i suoi fini e la sua storia. La sua è una battaglia vitale, il suo fine personale per lui vale ben di più dell'invito ad andare a casa: è il recupero della sicurezza, se voglia poi restare come primo ministro nessuno lo sa. Le più di 600 pagine dell'autobiografia disegnano il destino di un uomo di stato che in due volte ha governato 16 anni. Coi fratelli Yoni e Iddo ha avuto un'educazione elevata, il padre, lo storico Ben Tzion, era sodale di Jabotinsky, la sua educazione è laica, tradizionale. Bibi definisce la sua missione: «Aiutare il mio antico popolo, che ha sofferto tanto e tanto contribuito alla storia dell'umanità, a vivere un futuro sicuro». Lui dopo la Guerra dei Sei Giorni entra nella Sayeret Matkal, la forza speciale, poi serve come ambasciatore all'Onu, viene eletto alla Knesset e dal '76 vive pensando a Yoni, ucciso a Entebbe mentre liberava gli ostaggi. Da premier affronta Obama svelando le intenzioni atomiche dell'Iran, rende Israele uno dei primi Paesi del mondo in economia, tecnologia, medicina.
Oggi pensa che tutto questo può andare perduto se Hamas compirà un nuovo 7 ottobre, se si perderanno i rapiti. Bibi dunque resiste: vuole che la forza di Israele attragga i Paesi arabi moderati nei Patti di Abramo. La storia stessa di Bibi esclude che Israele divenga un piccolo Paese che dipende dall'opinione degli altri (così lo rifiutò Golda Meyer nel '73). Domani, dopo la guerra, si coalizzeranno forze disponibili a sostituire Hamas. Netanyahu ha detto «so di deludere i miei partner, io non intendo occupare Gaza». Non è un duro ideologico: è un pragmatico laico, che però ha nel governo piccoli partiti religiosi. Domani avrà altri partner, sarà battuto, lascerà il potere, chi sa: di certo, non vuole che la sua biografia finisca col 7 ottobre, e farà di tutto per evitarlo. Bibi è un soldato. Zelensky disse agli americani che gli offrivano una fuoriuscita: «Io ho bisogno d'armi, non di un viaggio».
Netanyahu ha bisogno di armi, non di affetto. È abituato: la gente qui è fifty fifty, odio e amore; ma lui sente che essere Netanyahu è portare dentro lo stato ebraico.
Vive le contraddizioni moderne, il jet set, una famiglia controversa: ma al nocciolo è un combattente, la cui idea di Israele è identica a quella di Ben Gurion. Semplice. Il popolo ebraico, come ogni altro, ha diritto a una patria.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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