Nobel sul salario minimo. E il premio... è dimezzato

Card è l'autore degli studi sul tetto alla paga oraria. Che ora danno ragione a chi lo avversa

Nobel sul salario minimo. E il premio... è dimezzato

È la legge del contrappasso applicata al Nobel per l'economia: David Card, ora professore a Berkeley, ma soprattutto ultrà del salario minimo garantito, si è visto recapitare da Stoccolma un assegno di soli 500mila dollari. Fatto mai successo, l'altra metà del milione stanziato per il premio è stata ripartita fra gli altri due vincitori, Joshua Angrist e Guido Imbens. O tempora, o mores, verrebbe da dire: ai tempi del Covid, anche all'Accademia svedese si tira la cinghia.

Giusto così. Non foss'altro per evitare ulteriori sperequazioni fra il comunque lauto riconoscimento ricevuto e quei 5 dollari di paga oraria di camerieri, baristi e cuochi del New Jersey che sono stati il pilastro sui cui Card ha edificato studi e carriera. Era l'inizio degli anni '90 negli Usa, e gli economisti avevano già elaborato un'equazione a prova di smagliature: salari minimi più alti, occupazione più bassa. Il motivo, altrettanto basico: a causa dei maggiori costi sostenuti dalle imprese. A quei tempi, il fresco insignito del Nobel ribaltò questo assunto consumando la suola delle scarpe in oltre 400 fast food, in una defaticante transumanza da Burger King a Wendy's, da Roy Rogers a Kentucky Fried Chicken, per capire se l'aumento del salario minimo nel New Jersey, da 4,25 a 5,05 dollari l'ora, avesse provocato un'emorragia di posti di lavoro. Non senza sorpresa, Card scoprì che l'occupazione non solo non era calata, ma era cresciuta. Il motivo? Altrettanto elementare. In genere, come atto a difesa dei conti, le imprese tendono a trasferire sui consumatori finali gli incrementi salariali sotto forma di un rincaro dei prezzi.

Ora: negli States il dibattito sulla minimum wage è tramontato da decenni, senza peraltro che l'aver fissato un tetto minimo alle paghe abbia risolto il problema generalizzato della compressione salariale, della precarietà del lavoro (ormai endemica, in particolare proprio nel settore della ristorazione) e delle sacche croniche di disoccupazione misurabili nei 42 milioni di americani che ricevono ogni mese oltre 800 dollari sotto forma di buoni pasto. In un Paese in cui si sono sempre più assottigliati gli stipendi da capo di famiglia, quelli che un tempo erano il simbolo dell'american way of life, gli studi di Card mostrano i segni del tempo e sono coperti da un doppio strato di polvere. E, paradossalmente, finiscono per dar ragione a chi avversa il salario minimo.

Sulla questione di stabilire in Italia una paga base di 9 euro, i partiti si sono spaccati (favorevoli 5s e Leu, contrari centrodestra e Pd, con l'eccezione della minoranza capeggiata da Enrico Letta), mentre è nato un inedito asse fra sindacati e imprese. Con i primi che temono di farsi scippare lo strumento della contrattazione nazionale e con Confindustria convinta che i contratti collettivi siano già l'espressione di una paga minima garantita, nonché lo strumento per combattere il dumping salariale. Oltre a sottolineare che la retribuzione oraria è già oggi superiore ai 9 euro lordi se nel calcolo inseriamo anche la liquidazione (non prevista in altri Paesi), la Cgia di Mestre ha messo il dito sulla piaga sottolineando come dei 985 contratti di lavoro in Italia, «il 40% è sottoscritto da sigle fantasma che non rappresentano nessuno, ma diventano il refugium peccatorum per molti imprenditori spregiudicati che riescono ad aggirare i contratti sottoscritti dalle sigle sindacali più rappresentative».

Ciò, nonostante nel 2015 la Consulta abbia stabilito che è contro la legge una paga inferiore ai minimi previsti dal contratto collettivo di settore.

Insomma: più che accapigliarsi sul salario minimo, forse sarebbe meglio proteggere le buste paga da un'inflazione che comincia a bucare un po' troppo le tasche degli italiani.

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