Ha scelto consapevolmente di non entrare nel dibattito, tanto che non si sbilancia neanche se viene sollecitato direttamente sul punto. Così anche domenica scorsa, quando è andato in quel di Pecorara, frazione dell'Alta Val Tidone, in provincia di Piacenza, a far visita all'amico Ginetto Albertini per due chiacchiere, un caffè e qualche sigaro. Gli hanno chiesto cosa ne pensasse del progetto di federazione del centrodestra e lui, banalmente, ha cambiato discorso quasi facendo finta di non capire. Non una, ma ben due volte. Per non aprire fronti con Matteo Salvini. Perché sa bene che il tema in Lega - soprattutto nella base lombarda - è esplosivo. Perché diversi parlamentari - sia deputati che senatori - gli hanno chiesto di intervenire per provare a mettere un freno a una convergenza che non è affatto vista di buon occhio. Salvini avrà certamente le sue buone ragioni - politiche e di prospettiva - ma è evidente che nel partito, almeno per ora, non le hanno ancora ben comprese.
Così, chi ha sentito Bossi o gli ha fatto recapitare messaggi - preoccupato dalle lamentele dei militanti che nel fine settimana si sono precipitati a chiedere lumi agli eletti che sul territorio presidiavano i gazebo #Mangiacomeparli (a difesa dell'agricoltura made in Italy) - non usa mezze misure. È successo al Nord, ma pure nelle Marche e in Toscana. «La nostra gente, quella che ha iniziato a votarci ai tempi della Lega Lombarda e della Liga Veneta, non ci capisce...», spiega un senatore lombardo. E fanno fatica gli stessi parlamentari del Carroccio.
Le chat interne di Camera e Senato tacciono, perché nessuno se la sente di dissentire in pubblico. Ma ieri a Roma è stato un capannello continuo: nei corridoi di Montecitorio e Palazzo Madama, in aula alla Camera durante il voto di fiducia al decreto riaperture, a ora di pranzo nei ristoranti del centro storico. Tutti scettici sul progetto di federazione, tutti critici per non essere stati neanche sondati sul tema. Non una riunione su una questione così delicata, neanche una comunicazione. «E pensare che parliamo di un passaggio politico che, se davvero andasse in porto, non potrebbe non essere tema di un confronto approfondito», spiega un deputato della Lega. «Ma non di un semplice Consiglio federale, perché per una svolta simile serve un congresso», rilancia più di un parlamentare. Tutti, rigorosamente off record. Forse per evitare di essere tacciati di dissenso, probabilmente gli stessi che chiedono a Bossi di dire la sua.
Posizione nota, quella del Senatùr. Convinto, racconta un leghista di lungo corso che ha avuto occasione di sentirlo nell'ultima settimana, che operazioni come queste «tolgano l'identità ai singoli partiti». E l'identità, per un pezzo consistente di base nordista del Carroccio, è decisiva. Ecco perché in molti fanno risuonare uno dei vecchi adagi di Bossi, le parole con cui nel 2007 - in un intervento al Parlamento della Padania di Vicenza - chiosò la fusione tra Pds e Margherita che diede allora vita al Pd: «A volte in politica due più due non fa quattro, ma fa zero». Il fondatore, giurano, continua a pensarla così.
E i suoi dubbi, come quelli di buona parte dei gruppi parlamentari del Carroccio, sono gli stessi che in questi giorni hanno mandato in agitazione un pezzo consistente di Forza Italia.
Esponenti di spicco - come le ministre Mariastella Gelmini e Mara Carfagna - non hanno esitato a manifestare pubblicamente perplessità sull'idea di una fusione o di una federazione con la Lega. Malumori che nel Carroccio, almeno per ora, sono rimasti saldamente sottotraccia.
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