Tra accuse di molestie e frasi sessiste, qualche problemuccio col gentil sesso Donald Trump non se l'è fatto mai mancare. Ma non è certo per l'esuberanza lessicale, così poco politicamente corretta, se il neo presidente degli Stati Uniti è finito nel mirino delle tre donne più potenti al mondo. Dalla numero uno della Federal Reserve, Janet Yellen, alla Cancelliera tedesca Angela Merkel, fino al capo del Fondo monetario internazionale, Christine Lagarde. Proprio quest'ultima, solitamente assai attenta alle virgole diplomatiche quasi quanto alla perfezione della sua acconciatura, ha gettato ieri alle ortiche l'abituale understatement per appiccicare addosso a The Donald il bollino della catastrofe. Dipinto come un cigno nero, un evento nefasto «davvero grande che avrebbe effetti devastanti, se si va a finire in una corsa al ribasso sul fronte fiscale, del commercio internazionale e della regolazione finanziaria». La frase è dichiaratamente dedicata alla Trumponomics, incardinata sui principi del protezionismo, con il condimento dei dazi e delle punizioni per chi delocalizza, e sulla promessa alle aziende di forti abbattimenti delle aliquote.
Insomma, un tackle piuttosto duro. Ancor più ruvido perchè gli Stati Uniti sono pur sempre il principale azionista del Fondo monetario. Ma un motivo c'è: Christine vuole difendere la parte di America ancora stretta sotto la bandiera di quella globalizzazione che ha finito per asfaltare la working class a stelle e strisce, determinando l'ingresso alla Casa Bianca di Trump. Vecchi poteri che fanno finta di non capire che la musica è cambiata, che pontificano con toni apocalittici e sicumera su ciò che sarà. Dimenticando - è proprio il caso del Fondo - di aver per anni inondato il mondo con previsioni sgangherate e di essere stati i paladini di un'austerità tossica, del rigore finanziario senza se e senza ma, autentico brodo di coltura di quella deriva populista che ora criticano. Ma nelle parole urticanti della Lagarde si potrebbe anche cogliere un atto di difesa nei confronti della Cina (uno dei principali bersagli di Trump), per cui si era già battuta con successo per portare lo yuan nel paniere dei diritti speciali di prelievo, la moneta del Fmi. Ottenendo in cambio l'appoggio di Pechino per strappare il secondo mandato come direttore generale del Fondo.
E non è forse una forma di protezionismo il bombardamento tedesco sulla Fiat, col chiaro intento di favorire una Volkswagen fiaccata nei conti e nell'immagine dal Diselgate? Eppure, Frau Merkel ha ricordato al nuovo inquilino di Pennsylvania Ave che «è più vantaggioso procedere assieme, piuttosto che pensando ognuno per sè. La risposta alla crisi del 2008 fu la cooperazione»; inoltre, «noi europei abbiamo nelle mani il nostro destino».
Ma la nemica più acerrima il tycoon ce l'ha in casa. L'aria bonaria da casalinga non inganni: la Yellen è un vero mastino. Di nomina democratica. Per Main Street, qualcosa la Fed ha fatto, ma non abbastanza per evitare il rischio di estinzione della classe media. Molto meglio è andata con Wall Street. Tassi a zero per anni, con buyback a gogò a gonfiare il prezzo dei titoli.
Lei va ripetendo che l'arrivo di Trump genera incertezza, vede come il fumo negli occhi la deregulation del settore finanziario promessa, pretende misure che aumentino la produttività piuttosto che tagli fiscali, non ha nessuna intenzione di mollare la presa sulla banca centrale e ha in mano l'arma nucleare dei tassi. Sarà guerra.
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