Non è un caso che nel luogo al mondo dove vi è più innovazione, la California, quando un'azienda vuole introdurre un nuovo prodotto o un nuovo servizio non si usano le vecchie regole: se ne scrivono di nuove. E queste regole vengono scritte insieme, dall'azienda e dall'autorità pubblica. In Italia non è così: il nostro è un sistema costruito sulla gestione dell'esistente.
La regola prevale sull'innovazione e spesso ne blocca lo sviluppo. Legge elettorale e riforme costituzionali rappresentano temi rilevanti per il Paese ma non lo si ripete mai abbastanza i problemi fondamentali restano quelli del lavoro e dell'economia. Questioni tutt'altro che risolte, come purtroppo certificano gli ultimi dati sulla disoccupazione giovanile che è tornata a crescere sino a un preoccupante 39,4%. Posto che non vi è la possibilità di far ripartire l'occupazione incrementando la spesa pubblica (molti lo vorrebbero ma con questo debito è impensabile), non resta che convincersi che l'unica strada per far ripartire crescita e lavoro è sostenere lo sviluppo delle nostre imprese. E qui il tema si complica perché parte dei partiti e degli imprenditori hanno sempre interpretato questo sostegno come l'elargizione di contributi. Una policy che ha dimostrato di non funzionare. Servono piuttosto opportunità per lo sviluppo che però troppo spesso vengono negate agli imprenditori da una burocrazia asfissiante e dall'inadeguatezza delle infrastrutture.
Secondo i dati del report Doing Business una concessione edilizia in Italia richiede 227 giorni e servono a un medio imprenditore 240 ore solo per pagare le tasse: quasi due mesi sottratti alla produzione. Ben diversa la situazione in Francia o Inghilterra, dove per gli stessi adempimenti si deve invece dedicare la metà del tempo.
Quanto alle infrastrutture, si pensi non solo a quelle fisiche (strade, aeroporti, ferrovie) ma soprattutto a quelle digitali. Siamo tra gli ultimi in Europa per velocità e diffusione della banda ultra larga e in fondo alla classifica per rapidità del download. Non si tratta solo di statistiche. Purtroppo, in un'economia dominata dalla velocità, procedere più lentamente ha un prezzo rilevante. Così proliferano tre fenomeni: aziende che chiudono, altre che se ne vanno e altre ancora che vengono acquistate da gruppi stranieri. La lista delle imprese italiane cedute all'estero è lunghissima. In un'economia globale il fenomeno non è di per sé negativo. Colpisce però lo sbilanciamento e la minor penetrazione dei nostri imprenditori all'estero. Siamo troppo piccoli: la Borsa di Milano non solo è anni luce distante da quella di Wall Street, ma con i suoi 522 miliardi di capitalizzazione è un terzo di quella di Francoforte e Parigi. Tra l'altro, banche e Fondi di investimento che potrebbero accompagnare lo sviluppo hanno da noi dimensioni molto più contenute. Ovviamente vi sono molte responsabilità degli imprenditori. Tuttavia in Italia - e questa è una colpa dello Stato - vige un modello tortuoso, formalista, burocratico, fatto di bolli e autorizzazioni con una produzione legislativa eccessiva o superata dall'evoluzione dei rapporti sociali che limita fortemente la crescita e qualche volta la sussistenza stessa delle aziende. E non dimentichiamo la debolezza del nostro governo.
Certo, siamo in Europa ma la competizione tra Stati resta evidente e la capacità francese o tedesca di difendere le proprie esportazioni mette ancora più in luce la nostra fragilità.
Il cahiers de doléances sarebbe ancora molto lungo. Basti ricordare l'incredibile lentezza della giustizia civile e la complessità delle cause di lavoro: due veri deterrenti agli investimenti. Oppure il nodo irrisolto delle liberalizzazioni e privatizzazioni. Il punto è chiedersi perché vi sia una scarsa propensione del mondo politico ad affrontare questi temi. Le risposte sono molte ma certo tra esse vi sta anche la scarsa presenza di imprenditori e partite Iva nelle istituzioni. Eppure non investire in innovazione e continuare a nutrire le mille inefficienze della Pa rappresenta un danno enorme per tutti i cittadini. Occorre porre i temi liberali di nuovo al primo punto dell'agenda politica. I nostri irrisolti problemi sono ancora lì a suggerircelo.
Tra le molte note dolenti chiudo con una positiva. Il numero di giovani imprenditori è in forte crescita; per desiderio di intraprendenza e realizzazione prima ancora che per motivi economici.
Sono 120mila le nuove imprese aperte da under 35 nel 2015: più della metà sono sopravvissute. Pagano tasse e creano occupazione. Per farne crescere il numero non ci vorrebbe poi molto. C'è necessità di opportunità più che di aiuti, quelle che gli ultimi governi non hanno saputo offrire.
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